mercoledì 28 dicembre 2011

[TIME] La proprietà dei media

Un altro articolo tradotto dal TIME. Questa volta l'articolo in questione "Looking Forward to 2012: The End of Media Ownership" scritto da Graeme McMillan tratta delle nuove modalità con cui i media distribuiranno i propri contenuti. 

--
Guardando al 2012: la fine della proprietà dei media

Ah, la settimana finale tra il Natale e il nuovo anno, quando guardiamo indietro a tutto quello che è successo, e in avanti verso l'anno che arriva. E che anno arriva – uno che potrebbe portare non solo l'apocalisse predetta dai Maya, ma anche la corsa attorno al mondo di John Cusack per salvare l'umanità. Che cosa sto aspettando? Qualcuno che finalmente rompa la mentalità sulla proprietà dei media, naturalmente. (la proprietà intesa come possesso del supporto fisico del contenuto: libro, dvd ecc... E' il concetto di cloud ndt)
Lo so, tu pensi che io sia pazzo, ma pensaci: se c'è una sola cosa che il 2011 ci ha insegnato, è che i media sono vaporware (vedi wikipedia per il significato ndt) e che non necessitiamo realmente di nulla di nostro. Netflix (tra gli altri) attraverso lo streaming ci mostra i film e gli spettacoli televisivi che desideriamo, e lo stesso fa Spotify (o Pandora, o chiunque) facendolo con la musica. I siti web hanno, da qualche tempo, provato che tu non necessiti di comprare il giornale, e sia Amazon che Apple stanno lavorando ad una versione digitale di manoscritti (o, come li chiamiamo noi, “libri”). Perchè qualcuno di noi dovrebbe voler comprare qualcosa in questi giorni, quando ci sono gli abbonamenti che permettono di accedere a qualsiasi cosa ponendoli a portata di mano?
Certo, devo ammettere che ci sono alcuni difetti in questa visione. Per prima cosa, non tutti sono entrati nell'idea che i media sono qualcosa a cui ci si abbona come ad una scatola, o che non si possano selezionare individualmente come si farebbe con un album, un DVD o un libro. Ma questi pensieri appaiono come dei messaggi dal passato, e si scontrano con la crescita delle compagnie di noleggio come Spotify, Netflix, ma anche – più importante – la mentalità degli spettatori di pagare una volta al mese per tutto quello che si può mangiare (il concetto di flat ndt) avrà lo stesso impatto che si è avuto nei primi giorni di protesta contro la musica digitale (che è dir poco, semmai).
Per diversi aspetti, questo nuovo mondo è il culmine del peggior scenario degli allarmisti sulla musica digitale, con lo spostamento della mentalità del consumatore da “possedere un oggetto fisico che rappresenta il lavoro creativo” a “possedere un file digitale che rappresenta il lavoro creativo” evolvendosi in “accesso a un file digitale, ma senza che questo sia tuo”. Quello che cambierà per tutti quelli coinvolti nella creazione dei contenuti multimediali non è ancora chiaro. Considerando le domande dal punto di vista finanziario: I diritti di noleggio sostituiranno i diritti di vendita in una quantità pari a quella attuale? Saranno trovati finanziamenti alternativi per i contenuti (il crowdsourcing attraverso Kickstarter ed altri, per esempio)? Trovare domande a tutte queste domande senza risposta non sarà facile.
Ma a dispetto delle incertezze ci siamo quasi, non è cosi? Noi abbiamo già la radio e la televisione in streaming web. Quello che sto aspettando dal 2012 è qualcosa che porti tutto questo insieme, un solo punto di accesso che riempia la nostra televisione, che porti film, musica e contenuti testuali, il tutto ad un abbonamento mensile dal basso costo. Può tutto questo essere lontano? Quando queste cose sono in arrivo, si tratta solo di chi arriverà a proporle, io vedo un trio di volti noti: Amazon, Apple e Google. Tutti e tre le compagnie hanno fatto investimenti nel digital media che hanno coinvolto i grandi creatori di contenuti mediatici, e queste partnerships fanno si che essi siano i più equipaggiati per effettuare uno sforzo – applicazioni, piattaforme o semplicemente idee – che possa essere in grado di catturare sia i consumatori sia i creatori
Per entrambi i gruppi, si si riduce a facilità di utilizzo e costi, e con dei costi, la parte difficile è raggiungere un accordo tra le due parti: l'informazione vorrebbe essere libera, come recita un vecchio detto, ma l'economia dei media si basa sulle persone che pagano. Da dove proverrà il denaro – e quanti soldi saranno – sarà una delle prime domande al quale i media digitali dovranno rispondere nel 2012. Una volta risposto in modo soddisfacente per tutti a questa domanda, saremo più vicini di un passo alla saturazione dei media in un modo che avremmo solamente sognato appena un decennio fa.

martedì 27 dicembre 2011

[TIME] Più tasse, per favore: noi siamo francesi

Proseguendo nella traduzione di articoli dai quotidiani stranieri, oggi pubblico la traduzione dell'articolo dal titolo "More taxes, please: we're French" di Bruce Crumleypubblicato il 26 Dicembre sull'edizione online del TIME.


---
Più tasse, per favore: noi siamo francesi

L'Europa potrebbe agonizzare nella peggior crisi finanziaria dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, ma questo non basta per costringere i francesi ad accettare una logica di liberismo economico come quella che domina in gran parte del mondo. Coloro che si basano su una visione “Aglosassone” da tempo criticano il welfare francese bollandolo come troppo costoso, insostenibile, non competitivo e sempre più indebitato – e adesso lo vedono condannato ad un'inevitabile dieta imposta dalla realtà. Ma come è d'abitudine dei francesi, stanno implorando di differenziarsi dal resto del mondo – e cosi facendo di difendere lo stato sociale, che è un motivo di profondo orgoglio nazionale, anche con soluzioni che altri stati non potrebbero sopportare.
E' vero, Parigi ha risposto alla crisi del debito – e alle minacce di perdere il rating AAA del credito – varando non uno, ma due piani di austerità per contenere il proprio deficit. E vero, anche, che alcuni dei tagli coinvolti riguardano il programma di protezione sociale francese. Ma cogliendo i dettagli della reazione francese, alcuni osservatori fanno notare come la Francia abbia mostrato ancora una volta la sua inclinazione ad opporsi alla saggezza comune (il taglio del welfare state secondo l'autore ndt) elaborando un piano di riduzione del debito che si basi, più che sulla riduzione dei diritti, su un considerevole aumento della tassazione. Benvenuti alla austérité à la française. Per il momento.
L'edizione domenicale del quotidiano francese Le Monde mette insieme diverse analisi del recente piano taglia-deficit svelato dal governo conservatore del Presidente Nicolas Sarkozy, e rilancia un famosa detto francese: “nel dubbio, alza le tasse”. E – forse perché la sensazione delle mani del governo francese nelle proprie tasche è normale – l'opzione di Sarkozy di alzare le tasse prima di tagliare i diritti, finora ha provocato poche proteste nell'opinione pubblica francese
Come racconta il Global Spin, il risparmio del piano francese nei primi due anni del piano si aggira sui 26 miliardi di dollari – su un totale che deve arrivare a 90 miliardi entro il 2016. Questo sforzo ha come obbiettivo la riduzione del deficit di bilancio della Francia dai 199 miliardi del 2010 a 103 miliardi di dollari entro il 2012 e iniziare cosi a restituire una parte del debito sovrano pari a 1.7 trilione di dollari (rappresenta poco oltre l'86% del Pil) nei prossimi due decenni. Ma in contrasto con la crisi che ha devastato paesi come la Grecia, la Spagna e l'Irlanda – i quali hanno drammaticamente tagliato la spesa, congelato o tagliato i salari degli impiegati pubblici e ristretto i fondi per i disoccupati e per i pensionati – i tentativi francesi di di bilanciare il budget del paese sono concentrati in primo luogo a potenziare le ritenute attraverso la tassazione. Nel 2012 solo il 24% dei risultati attesi da quelle misure verranno da una riduzione della spesa; il rimanente 76% sarà realizzato attraverso l'incremento delle entrate statale con la creazione di nuove tasse. L'anno seguente i tagli alla spesa rappresenteranno il 53% della riduzione del deficit di bilancio – una porzione in crescita al 64% nel 2016 secondo alcune letture del pacchetto. Altre analisi, tuttavia, stimano che poco più della metà dei guadagni nei prossimi cinque anni arriveranno da un aumento del flusso di introiti delle tassazioni – nonostante in media le previsioni di crescita annuale per i prossimi anni si attestano sull'1% - con il resto recuperato con tagli alla spesa attuale. Questo non è il tipo di smantellamento del welfare state sul quale molti liberali esteri avrebbero contato.
La ragione della strategia francese appare ovvia. Con le elezioni politiche in Aprile, Maggio e Giugno, i leader conservatori francesi appaiono consapevoli che i francesi di ogni estrazione politica odiano più vedere tagliato l'amato sistema del welfare e i programmi sociali che sentirsi toccare il portafoglio con un aumento delle tasse. Forse più di ogni altra società sulla terra – anche tra le nazioni europee che tendono ad amare il loro welfare states – i francesi non solo tollereranno una tassazione personale molto alta per finanziare il loro modello sociale, ma uniranno anche le varie tendenze politiche per difendersi dagli attacchi percepiti contro di esso. Essendo stato segnato dalle tante e proteste di massa riguardanti la riforma, l'impopolare Sarkozy è presumibilmente a conoscenza dei pericoli dei tagli ai programmi mentre si avvicina il difficile tentativo di rielezione – sempre sotto la pressione della crisi del debito.
Il leader francese presumibilmente tiene anche a mente che i governi di Grecia, Spagna, Irlanda e altri paesi dell'Eurozona sono caduti sotto la rabbia popolare per aver alzato le tasse e tagliato i programmi sociali tutti in una volta sola. Questa terribile lezione di quello che può portare ad usare un grosso bastone e nessuna carota non da alcun dubbio sulla forma da dare alla cura di Sarkozy: un approccio a due fasi per tagliare il deficit. (La Francia non è l'unica che segue questa via prudenziale. Nonostante le previsioni iniziali secondo cui il nuovo governo italiano avrebbe agito sull'emergenza crescente del debito sia ricercando nuove entrate fiscali sia garantendo profondi tagli ai programmi sociali, il Primo Ministro italiano Mario Monti ha varato un piano con molte nuove tasse e pochissime riforme)(ci sarebbe da discutere su questa osservazione del giornalista, sul fatto che non venga toccato il sistema di welfare italiano ndt).
Ma barando circa il suo sforzo nella riduzione del disavanzo con un'iniziale importanza dell'innalzamento delle tasse a causa dell'avvicinamento delle elezioni, Sarkozy può sistemare la Francia per una decisione di futura – maturando delle decisioni sull'opportunità di prolungare questo approccio o meno a metà del 2012. Il motivo? Gli attuali sondaggi indicano che sia Sarkozy che il suo governo conservatore saranno battuti dai rivali della sinistra che adesso corrono con la promessa di rivedere il back-end del loro deficit e il piano di riduzione del debito – e un cambio del target delle attenzioni fiscali. Gli avversari (ed alcuni analisti indipendente) denunciano che le misure adottate dai conservatori di Sarkozy pesano ingiustamente sulla classe media e sulle famiglie povere, mentre risparmiano i più ricchi. Fosse stata eletta la sinistra, non solo sarebbe incline a colpire i ricchi con molto più che un innalzamento temporaneo della tassa personale del 3-4% previsto dal piano di Sarkozy, ma scaverebbe in profondità nelle oltre 500 esenzioni che proteggono con varie modalità dalla tassazione sulla persona – molte delle quali fanno parte della Francia benestante. I soldi persi dallo Stato a causa di queste esenzioni sono ogni anno 90 miliardi di dollari – facendo mancare allo stato un introito vicino al deficit di bilancio atteso per il 2012. Per questa ragione alcune voci – tra cui alcune del centro e della destra – stanno cercando i ricchi del paese, che de facto sarebbe un risparmio fiscale che potrebbe essere di grande aiuto per l'attuale crisi del debito.
I conservatori francesi di contro ribatto che un aumento delle tasse per le classi agiati semplicemente provocherebbe una fuga di capitali all'estero presso nazioni come la Svizzera o il Lussemburgo – una mossa, sostengono i conservatori, che vedrà i governanti della sinistra aumentare le tasse a tutti i livelli a (parziale) copertura del deficit. Questa è un'accusa che suona ideologica, ma è un'improbabile eventualità. Con il livello generale medio di tassazione del 49.5% per famiglia nel 2010, anche molti economisti sfrenatamente di sinistra dicono che c'è un limite a quanto possono essere alzate le tasse prima che queste colpiscano seriamente il potere d'acquisto – e minare cosi i consumi e la crescita. (Questo può essere vero, ma tasse alte non sono sinonimo di rovina economica o finanziaria. Mentre la Francia è il più alta del 5% rispetto la media europea, è considerevolmente più bassa rispetto a economie robuste come la Svezia, la Danimarca, la Finlandia e la Norvegia). Al contrario, il dibattito in Francia è molto aperto sui ricavi non tassati che per il momento sono coperti da deroghe e scappatoie per i ricchi – e alcune aziende – con un consenso crescente tra il 99% sul fatto che lo Stato dovrebbe prendere più fondi dall'1% privilegiato. Nel frattempo si è anche parlato, nell'eventuale vittoria della sinistra il prossimo anno, della demolizione della complessa e spesso opaca struttura fiscale francese, e sostituirla con una struttura più snella, trasparente ed equa che sposti il peso maggiore della contribuzione sulle spalle dei redditi più alti.
Tutto questo non può che suggerire che c'è un consenso crescente e uniforme sul proteggere il welfare state attraverso l'innalzamento delle tasse – e dove tali aumenti dovrebbero colpire pù duramente. C'è un altro dibattito in Francia, come c'è negli USA o in UK, sulla correttezza, la saggezza o la produttività di “inzuppare i ricchi” con tasse più alte – e lo scontro di opinioni su questo argomento è frontale come in altre parti. Al contrario, il tema di usare le tasse per redistribuire la ricchezza – e salvaguardare il sistema di welfare nazionale nel processo – è non solo un'idea accettata, a differenza di altre nazioni più liberali economicamente come gli Stati Uniti, ma essa è vista come un slam dunk (termine americano per dire schiacciata a canestro, in questo contesto quindi assume un valore altamente positivo essendo la schiacciata molto apprezzata nel gioco del basket ndt) in Francia tale che solo poche persone hanno alzato la voce arrabbiate al vedere il proprio reddito anche più tartassato dal piano di Sarkozy. Quando gli economisti neoliberisti affermano che il welfare state è morto perché non può essere finanziato, i francesi rispondono sottolineando che una tassazione più alta può farlo (almeno fino ad un certo punto).
Segno che i francesi sono ancora francesi – e in un modo che non può non sconcertare e far sorridere le persone in qualsiasi luogo in ugual e opposta misura.

[Sguardo dal passato] La crisi dei partiti politici

Osservazioni su alcuni aspetti della struttura dei partiti politici nei periodi di crisi organica (da connettere con le note sulle situazioni e i rapporti di forza). A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe. Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericola, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all'attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici. Come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti (organizzazioni di partito in senso stretto, campo elettorale-parlamentare, organizzazione giornalistica) si riflette in tutto l'organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dall'alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell'opinione pubblica? In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito  in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza  il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi  intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di «crisi di autorità» e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso.
La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, mutua uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l'avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato. Il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell'intera classe è un fenomeno organico e normale, anche se il suo ritmo sia rapidissimo e quasi fulmineo in confronto di tempi tranquilli: rappresenta la fusione di un intero gruppo sociale sotto un'unica direzione ritenuta sola capace di risolvere il problema dominante esistenziale e allontanare un pericolo mortale. Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere disparati, ma in cui prevale l'immaturità delle forze progressive) che nessun gruppo, né quello conservativo né quello progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone (cfr Il 18 brumaio di Luigi Napoleone).
Questo ordine di fenomeni è connesso a una delle quistioni più importanti che riguardano il partito politico, e cioè alla capacità del partito di reagire contro lo spirito di consuetudine, contro le tendenze a mummificarsi e a diventare anacronistico. I partiti nascondo e si costituiscono in organizzazione per dirigere la situazione in momenti storicamente vitali per le loro classi; ma non sempre essi sanno adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche, non sempre sanno svilupparsi secondo che si sviluppano i rapporti complessivi di forza (e quindi posizione relativa delle loro classi) nel paese determinato o nel campo internazionale. Nell'analizzare questi sviluppi dei partiti occorre distinguere: il gruppo sociale; la massa di partito; la burocrazia e lo stato maggiore del partito. La burocrazia è la forza consuetudinaria e conservatrice più pericolosa; se essa finisce col costituire un corpo solidale, che sta a sé e si sente indipendente dalla massa, il partito finisce col diventare anacronistico, e nei momenti di crisi acuta viene svuotato del suo contenuto sociale e rimane come campato in aria. [...]

Paragrafo 23 Quaderno 13 [Quaderni del Carcere, Antonio Gramsci]

giovedì 22 dicembre 2011

[NYT] The King George


A seguire la traduzione di un editoriale del New York Times che parla di Giorgio Napolitano. La lettura di tale articolo è utile per comprendere la visione che ha uno dei più importanti quotidiani mondiali del nostro Presidente della Repubblica e più in generale della situazione della politica italiana

mercoledì 21 dicembre 2011

[WSJ] La disoccupazione dei neolaureati cinesi


Il problema dei giovani laureati che si trovano fuori dal mondo del lavoro non è una problematica solamente italiana. Ne fanno le spese anche i giovani cinesi ed americani come spiegato da una giornalista del Wall Street Journal. In particolare la giornalista nel suo articolo ci spiega a grandissime linee quali sono le idee del governo cinese e la reazione dell'opinione pubblica del paese asiatico.
Di seguito potete trovare la traduzione dell'articolo. L'articolo originale lo trovate qui.

La Cina cancella le specializzazioni universitarie che non danno lavoro

Come per gli Stati Uniti, la Cina sta cercando di affrontare un problema demografico recentemente emerso: la generazione di laureati senza lavoro. La Cina ha comunque già una soluzione soluzione a questo problema. Soluzione che in molti altri paesi, in particolare occidentali, porrebbe quantomeno diversi interrogativi.
Come riferito dall'agenzia di stampa governativa Xinhua, il Ministro dell'educazione Cinese ha annunciato questa settimana un piano attraverso il quale sopprimere gradualmente quei corsi di specializzazione universitaria (majors) che producono laureati senza un reale sbocco lavorativo. Il governo darà avvio ad una serie di valutazioni circa i corsi di specializzazione analizzando gli indici di inserimento nel mondo del lavoro, e ridurrà o taglierà quei corsi che non soddisferanno i requisiti richiesti, tra cui avere una percentuale di laureati attivi nel mondo del lavoro superiore al 60%.
L'iniziativa ha lo scopo di risolvere il problema della gran massa di laureati cinesi che nel 2010, secondo i dati del censimento cinese, risultano 8930 ogni 100000 abitanti con una crescita del rapporto pari al 150% rispetto al 2000. L'aumento di laureati, in altri casi un pregio per il paese, ha contribuito alla sovrabbondanza di lavoratori in possesso di una serie di competenze che non corrispondono però con le richieste e le necessità del mercato dell'export che è il mercato trainante dell'economia cinese.
Tuttavia la decisione del governo di frenare i corsi di specializzazione sta incontrando diverse resistenze. Come riportato in un reportage del China Daily molti professori universitari sono scontenti del provvedimento, che porterà ad una diminuzione di una serie di talenti fondamentali in una serie di campi, come la biologia, che sono fondamentali per un paese che punta a diventare il leader mondiale nei campi scientifici e tecnologici ma che in questo momento non godono di una forte domanda di laureati da parte del mercato del lavoro.
Un'altra critica alla manovra governativa, seppur con diversa motivazione, viene espressa in un editoriale del Beijing News. Nell'editoriale viene fatto presente che queste valutazioni incentivano le false dichiarazioni circa i tassi di occupazione da parte delle università che sono alla ricerca di una maggiore autonomia nella formazione di studenti più qualificati e con percorsi di studio diversificati.
I dati ufficiali infatti mostrano come il numero di laureati cinesi senza lavoro è in diminuzione. Secondo il Ministero dell'Istruzione nel 2010 il 72% dei neolaureati ha trovato un lavoro, mentre nel 2009 erano il 68%.
Nessuno dei rapporti specifica però quale saranno le specializzazione che verranno tagliate con le nuove regole, ma ci sono già alcune indicazioni che mostrano come diverse università avrebbero già iniziato a prendere provvedimenti che porteranno ad una riduzione dei corsi non richiesti dal mercato del lavoro. Sempre secondo il reportage del China Daily all'Università di Shenyang il corso di russo ha visto diminuiti il proprio numero di posti a 25 rispetto ai 50 degli anni scorsi.
Mentre il paese continua a spingere per la crescita delle proprie industrie e delle proprie tecnologie l'educazione è diventato un tema molto caldo in Cina. Per vincere questa sfida, secondo il governo, il paese deve produrre più innovazione. Le forti restrizioni in materia di istruzione sono viste come la principale causa della mancanza di creatività nella società cinese e della fuga dei molti studenti che hanno scelto di andare all'estero per proseguire i propri studi.
I cinesi hanno messo in dubbio che futuri Steve Jobs – fondatore della Apple – possano crescere all'interno di un sistema educativo che tende ad omologare verso il basso tutti gli studenti annullando le eccellenze.
Per questo motivo molti degli studenti cinesi, che dispongono dei fondi sufficienti, hanno deciso di andare a studiare presso le università statunitensi che sono conosciute per aver sfornato laureati diventati poi innovatori di livello mondiale. L'anno scorso 128 mila studenti cinesi si sono trasferiti negli Stati Uniti facendo cosi della Cina il paese con il più alto numero di studenti nelle università americane secondo quanto riportato dall'Institue of International Education nel suo rapporto del 2010.
Ma gli Stati Uniti devono sforzarsi di occuparsi della propria generazione di laureati disoccupati, il sistema di istruzione americano è anch'esso messo in discussione e molti studenti dei college stanno ripensando al valore della propria specializzazione.
Che cosa succederebbe se il governo Statunitense decidesse di adottare l'approccio cinese? Secondo i dati più recenti del censimento statunitense, tra le prime specializzazioni troviamo: psicologia, storia statunitense e tecnologie militari.

Qualche dato sparso sull'università

- Per il 2012 ci sarà un leggero aumento dell'FFO pari a circa 300 milioni di euro pari ad un aumento percentuale di 0.09%.

- Nel 2011 l'FFO complessivo è stato tagliato dell'1%.

- Il taglio dell'FFO per l'Università di Brescia per l'anno 2011 è stato pari a -0.1%.

- L'UniBS occupa la terza posizione tra le università italiane per la minor diminuzione del proprio FFO (prima Trento con +0.6%).

- L'UniBS occupa la quindicesima posizione su base premiale.

- Nel prossimo anno verranno stanziati 120 milioni per nuovi ricercatori e 93 milioni per nuovi professori associati.

- Aumento di 141 milioni dei fondi per l'edilizia residenziale universitaria (per un totale di 171 milioni).

- Rinegoziazione del tasso di interesse tra le Università e la Cassa depositi e prestiti (da 3 a 1.8)

- L'FFO incide con una percentuale tra l'80 e l'82% delle entrate totali dell'Ateneo bresciano.

- Delle entrate dell'Ateneo il 34% viene utilizzato per la didattica il 66% per la ricerca.

- Negli ultimi tre anni, a causa dei tagli del Governo Berlusconi, l'UniBs è passata da un bilancio in attivo di qualche milione di euro a bilanci in passivo [-7.4 (2010), -8.8 (2011), -6.9 (2012)].

- Il rapporto tra contribuzione studentesca ed FFO cala dal 24.6% al 23.1%. Ciò è causato da un minor flusso di contribuzione studentesca a parità di studenti. Ulteriore dimostrazione della crisi che colpisce le famiglie.

- Le tasse studentesche (diverse dalla contribuzione è stabilità dal Ministero) sono aumentate di 2.8 euro per ogni studente con D.M. del 22 Febbraio 2011. Ciò porterà circa 39mila euro in più nelle casse della Statale.

- Il 12% dell'FFO è di natura premiale.

- Il 97.7% dell'FFO per l'Università di Brescia viene usato per le spese del personale.

- Per l'ICT e la comunicazione sono stati stanziati, per il prossimo triennio, 2.3 milioni di euro.

- I fondi per le Collaborazioni studentesche (150 ore) sono stati tagliati del 30%. Ciò a causa della scarsa risposta degli studenti a questo tipo di sostegno economico.

- La Regione Lombardia ha taglia 874.243,52 euro su circa 3 milioni per le borse di studio regionali.

domenica 18 dicembre 2011

Cosa dev'essere un giornale

Su proposta del Circolo del Franciacorta-Sebino, e seguendo il loro esempio, i Giovani Democratici bresciani si stanno, in questi ultimi mesi, dotando anch'essi di un proprio giornale.
Dico volutamente giornale, anziché giornalino, perché penso che già dal nome un progetto di questa ampiezza meriti rispetto e considerazione fin dal proprio nome.
Scrivere, e pubblicare, un giornale non è un qualcosa che si può fare a cuor leggero, esso richiederà l'impegno da parte di tutti, perché esso è il primo mezzo con cui si fa informazione e politica. La politica è informazione e l'informazione è politica. L'obbiettivo che i Gd bresciani devono porsi attraverso il loro foglio non è solo fare propaganda, ma raccontare i fatti e contestualmente portare la propria analisi e la propria visione di essi e conseguentemente imporre - a livello culturale - queste riflessioni non solo ai propri coetanei ma anche e soprattutto al Partito Democratico. La creazione e la pubblicazione - con vari formati - viene ad assolvere quel ruolo di pungolo che i giovani hanno nei confronti dei grandi.

Qualcuno adesso potrebbe ribattermi che nell'era di internet e delle televisioni i giornali sono superati. Un giornale non è solamente la carta con cui viene stampato, sono i temi che vengono trattati, i toni con cui vengono trattati. Il giornale è l'opposto della superficialità della comunicazione moderna (come dice anche Reichlin).
Non è un caso che sempre più gente, anche nell'era di internet, vada alla ricerca di giornali online sui quali informarsi e costruire una propria idea.Con internet siamo tornati alla ricerca dell'informazione di qualità. Paradossalmente dopo 20 anni di comunicazione visiva siamo tornati alla comunicazione scritta, seppur su altri supporti.
Internet quindi non è l'avversario del giornale, anzi al contrario gli da nuova vita e apre nuovi spazi anche a coloro che, come i Giovani Democratici bresciani, non possiedono i mezzi tecnici e finanziari dei grandi gruppi editoriali.
Per descrivere il mio concetto di giornale, meglio di ogni mia parola possono le parole di Alfredo Reichlin che per commentare la messa online di tutto l'archivio storico dell'Unità scrive un editoriale spiegando cosa fosse L'Unità e più in generale cosa dovrebbe essere, o aspirare ad essere, un qualunque giornale che punti ad essere tale.

Prima di lasciarvi alla lettura dell'articolo ci tengo a dare un solo consiglio: colui che si accinge a leggere le parole di Reichlin dovrebbe spogliarsi dalle proprie possibili pregiudiziali nei confronti di un giornale e di un'esperienza politica. Le parole di Reichlin vanno analizzare aldilà del discorso incentrato su L'Unità e portare su un piano più alto

----------

Il Corriere degli operai 

di Alfredo Reichlin da L'Unità del 2 Ottobre 2011


Mi chiedono di commentare questa impresa davvero notevole: la messa a disposizione di tutta quell’immensa mole di fatti, idee, scritti, narrazioni e commenti che rappresentano la collezione dell’Unità.

L’Unità è stata gran parte della mia vita. Ne divenni direttore a trent’anni, alla vigilia del famoso 1956 (il rapporto segreto e il crollo del mito sovietico). Ero entrato nella sua redazione poco dopo la Liberazione di Roma e avevo fatto tutti i mestieri, dalla cronaca nera ai resoconti parlamentari. Dopo sei anni e in conseguenza di un serio dissenso politico sul rapporto tra il Pci e il centro-sinistra passai a fare altro. E poi, in un’altra stagione politica (1976, Berlinguer, il compromesso storico), fui chiamato nuovamente a dirigerla. Per altri sei anni. Una vita. Vorrei evitare nostalgie e commemorazioni. Sono sempre più assillato dalla consapevolezza di questa vera e propria mutazione del mondo. So anch’io che il mondo è sempre cambiato. Ma adesso si tratta della fine della sua occidentalizzazione. Sei secoli. Si tratta dell’Europa, il luogo dove si è inventato tutto e il contrario di tutto; lo Stato e la rivoluzione, la libertà e il fascismo, la democrazia, la destra e la sinistra. È l’avvento non solo di nuove potenze ma di una nuova identità. Quindi di un diverso pensare se stessi, quindi la realtà.

Ho dei nipoti, giovani, adolescenti. Sono sicuro che mi tengono in buona considerazione. Ma, se vogliamo dire la verità, io mi accorgo che essi, al fondo, non sono molto interessati alla mia storia. Certo non sono indifferenti ma ciò che io leggo in loro è il travaglio e perfino la sofferenza di una nuova generazione che è alla ricerca di nuovi significati e che pone – senza riuscire nemmeno a formularle - nuove domande sul futuro. In sostanza domande di valori ai quali il narcisismo e il politicismo del ceto politico non è in grado di rispondere.

Stiamo attenti: anche questo alimenta l’antipolitica. E la sinistra non è innocente. Dunque, questo è il mio commento alla nuova lettura che si può fare dell’Unità. C’è nella storia di questo giornale qualcosa che risponda alle domande dei miei nipoti? Lasciamo stare le apologie. Ho vissuto la vita quotidiana di questo giornale e so quanto siamo stati anche faziosi e settari. Conosco la fretta con cui si lavorava e quindi gli errori e le sciatteria. Ma l’Unità non fu soltanto l’organo di un partito e che partito: il partito comunista. Fu una grande invenzione. È esattamente per questo che essa incise sulla storia dell’Italia repubblicana. Perché fu una cosa molto pensata di cui non esisteva il paragone. Non solo in Italia. Fu una costruzione complessa, ispirata fondamentalmente da Palmiro Togliatti e molto discussa in un gruppo di giovani e di intellettuali di cui anch’io ho fatto parte. L’idea di Togliatti era molto chiara: il nostro modello, diceva, non è il vecchio Avanti delle vignette anticapitalistiche di Scalarini, né tanto meno la Pravda ma il Corriere della Sera. Vogliamo fare della classe operaia la nuova classe dirigente? Allora dobbiamo dare ad essa un grande giornale capace di battersi con i giornali della borghesia sul terreno della informazione sui fatti reali del mondo, che dica la sua su tutta la vita sociale, compreso lo sport e lo spettacolo. Questa fu la nostra missione. Non fu solo quella di trasmettere le direttive del partito ma di dare battaglia sul terreno dell’egemonia (egemonia intesa in senso gramsciano ndr). E fare ciò cominciando dalla capacità di competere con gli altri nel definire l’agenda politica e ideale del Paese. E così uscire dalla subalternità. Qualcosa di più profondo dell’essere lo strumento al servizio del popolo per farsi giustizia (mi minacci? io lo racconto all’Unità). E tutto questo non a parole ma facendo un giornale che era un giornale, un giornale, e un giornale. Un grande giornale che la domenica vendeva un milione di copie.

La domanda è: chi detta oggi l’agenda del Paese? Certo non noi, ridotti come siamo quasi al silenzio. A me pare che qui sta l’attualità del racconto che voi mi costringete a fare ai miei nipoti. I quali vivono in un Paese dove gran parte del ceto politico (non tutto per fortuna) ha ceduto il comando non solo all’oligarchia finanziaria ma al giornalismo più straccione che lusinga il suo narcisismo invitandolo a schiamazzare nei talk show televisivi e accettando perfino che la trasmissione venga aperta da un comico che li sbeffeggia (tra le risate di tutti). A questo ci siamo ridotti? Certo, la sinistra non possiede più l’alto linguaggio etico-politico, di condanna civile del cardinal Bagnasco. La sinistra – come sappiamo e tutti diciamo - deve rinnovarsi in tante cose. Secondo me, tra queste, c’è una nuova riflessione che deve fare sull’importanza dei giornali. Perché i dirigenti non scrivono gli editoriali? Come pensano di far camminare le idee se ne hanno? Idee non le solite battute di una intervista televisiva. È vero, è in tv che si forma quella cosa fondamentale che sono i costumi i modelli di pensare. Ma a monte ci sono pur sempre le idee, le grandi decisioni. Dopotutto la cultura dominante è quella della classe dominante, ed è a essa che il sistema dei media si adegua. Concludo. Alla fin fine che cosa chiedono i miei nipoti se non ridare senso e significato alle loro esistenze, se non il bisogno di tornare ad essere padroni delle proprie vite? È ciò che cercano. Sappiano allora che questo fu il grande messaggio dell’Unità. Non fummo un grande giornale popolare e di massa perché raccontavamo balle o pubblicavamo storie di puttanieri. Ma nemmeno lo fummo solo perché denunciavamo le ingiustizie. Lo fummo perché ci costituimmo come strumento di una costruzione democratica, cioè del protagonismo (per una volta tanto nella storia italiana) delle masse.
Spero si capisca l’orgoglio e la piena dei sentimenti di chi faceva quel giornale e vedeva l’operaio del cantiere di Taranto (l’ho conosciuto) che rischiava il licenziamento perché si ostinava a varcare i cancelli della fabbrica, all’alba con in tasca l’Unità. C’è una grande discussione sulla “casta” e sul modo di fare politica. Non mi piace. Io ricordo che quasi ogni sera un uomo come Palmiro Togliatti prima di andare a casa passava dalla redazione in via IV novembre. Parlava con noi e si faceva portare una birra prima di mettersi a scrivere un commento con l’inchiostro verde. Vedi, mi diceva, sta attento al linguaggio: quello della politica deve parlare ai cuori e alle menti e non imitare il linguaggio povero e rissoso dei giornali. Leggi Stendhal. Purtroppo ho perso i bigliettini che mi mandava ogni giorno per commentare un film o la cronaca del Giro d’Italia. Arrivavano a sera anche gli intellettuali che scrivevano la “terza pagina” e ponevano al povero Ingrao problemi impossibili. Pietro commentava in prima pagina il passaggio dal neo-realismo alla commedia all’italiana. Si lavorava come matti e l’ultimo camioncino portava a casa il direttore verso le due.

venerdì 16 dicembre 2011

Ma Riformisti è davvero la parola giusta?

Dopo la serata di ieri, a cui accosto l'incontro dei Cattolici del Pd di qualche settimana fa, possiamo intravedere, o tentare di farlo, quali sono le strade che sta cercando di imboccare un Partito Democratico che finora ha faticato a trovare una propria rotta più che un timoniere in grado di tenerla.

Per trovare una rotta ci si affida, forse inutilmente, a parole che hanno un forte peso storico, più che politico almeno in Italia. Succede cosi che il senso dell'incontro di ieri più che dalla parola Riformismo, può essere sintetizzato da una frase dell'onorevole Orlando: "la crisi del berlusconismo sta permettendo una nuova suddivisione interna del Pd che non ha più come riferimento le persone, ma bensì gli interessi di fondo e le idee".

Infatti la parola Riformismo è stata ieri più un pretesto per avviare un percorso di riflessione politica più che il vero leitmotiv della serata, non risultando completamente adatta a racchiudere in se tutte le riflessioni a cui si è assistito.
Il perché di ciò è apparso palese dagli interventi, per chi fosse presente, ed è stato poi espresso chiaramente dal solito Orlando che nella sua digressione storica ha fatto ben comprendere che la parola Riformista, se non riempita di contenuti specifici, ha uno scarso valore politico e tematico.
Lo stesso Maurizio Martina ha aggettivato la parola riformista come timida nonostante poi abbia riconosciuto la validità degli interventi che lo hanno preceduto.
E cosi, nonostante vada riconosciuto l'impegno con cui si è cercato di dare un significato specifico al termine, altre due parole hanno conquistato la ribalta del palcoscenico finendo sulle labbra di tutti i relatori: Europa ed uguaglianza.

Partiamo dalla seconda. E' la parola che più è stata accostata al termine riformista e quella che più ha contestualizzato lo stesso durante tutta la serata.
Per usare le parole di Scalvenzi, l'uguaglianza deve partire da una "meritocrazia non egoista, ma attenta anche agli ultimi" e per fare ciò la politica [riformista] "non può essere la crocerossina del mercato, ma comandarlo e riformarlo" (Michele Orlando). Si impone cosi, da parte di tutti, una visione di un mercato che deve essere posto sotto il controllo della politica - ruolo al quale la politica per il momento ha abdicato non solo in Italia - con una ricerca di un rapporto tra libertà e regole che si compone nella sfida del salvataggio di un modello sociale e al contempo nella riforma del sistema di sviluppo con l'obbiettivo ultimo di modernizzare il paese riducendo le disuguaglianze.
Arriviamo cosi alla ricerca di un nuovo modello di uguaglianza, la quale si deve sviluppare attraverso un riformismo tipico dei socialisti tedeschi e francesi piuttosto che basarsi sul riformismo liberale di blairiana memoria.

Arriviamo cosi all'altra parola significativa della serata: l'Europa. Per tutti i relatori ogni iniziativa in senso riformista non può prescindere dal palcoscenico europeo. Si è palesata la necessità, come già avevo scritto, di un impegno sul fronte delle istituzioni europee, perché solamente attraverso, e dentro, di esse si potrà portare avanti  una battaglia politica che vede i suoi principali avversari muoversi su di un terreno sovranazionale.
E sul piano europeo c'è un'ulteriore punto di avvicinamento con le posizioni socialiste riformiste, come sul tema dell'uguaglianza. Il solo PSE è stato riconosciuto come punto di riferimento in campo europeo per la politica riformista italiana. Su questo campo l'onorevole Orlando si è lanciato anche oltre chiedendo una riflessione, durante il passaggio sulla politica del Pd, sulla possibilità di una politica riformista facendo presente come oggi nel Partito Democratico siano presenti posizioni politiche che in Europa sono locate dal centrodestra in là.

In conclusione la serata è stata piacevole con alcuni interventi di davvero alto livello, tra cui spicca quello dell'onorevole Orlando, e sotto certi punti di vista è stata una forte risposta politica a diverse posizioni uscite dall'incontro dei Cattolici del Pd all'Artigianelli.
Sotto altri aspetti, anche soprattutto per il grande risalto politico dato da tutti all'incontro, mi sarei aspettato una minor timidezza e un maggior coraggio - altra parola ricorrente - soprattutto da parte degli esponenti bresciani nel dettare, con parole d'ordine forti, l'inizio di un percorso politico che ad oggi rappresenta il futuro di quella parte consistente del Partito Democratico bresciano che guarda a sinistra.

mercoledì 14 dicembre 2011

Dal Canada all'Italia. Una strada per l'integrazione

Gli ultimi avvenimenti di cronaca hanno rinfocolato il dibattito, mai spento, tra i fautori di un multiculturalismo e tra coloro che invece pensano che un'integrazione tra diverse culture non sia possibile e che l'immigrazione sia la prima causa del tasso di criminalità all'interno della società italiana, in particolare, ed occidentale in generale. 

Cosi se per caso qualcuno accenna ad un'area metropolitana di 6 milioni e mezzo di abitanti, aggiungendo inoltre che è la seconda città al mondo per numero di residenti nati all'estero (46%), nella mente dell'italiano medio la prima cosa che scatta è il pensiero sull'alto indice di criminalità presente in zona.

Eppure numeri cosi grandi sono i caratteri peculiari di una realtà in cui il multiculturalismo non solo è una realtà consolidata, ma fa di questa città il motore economico, culturale e turistico dell'intero paese.
Non sto evidentemente portando l'esempio di alcuna città italiana. I numeri sopra enunciati sono quelli di Toronto, città modello del multiculturalismo mondiale, capoluogo della provincia dell'Ontario e prima città per numero di abitanti del Canada.

Non è un caso se nel 2007 il famoso Financial Times nella sua versione europea posizionava la città canadese al secondo posto nella lista delle grandi metropoli del futuro del Nord America. I punti di forza individuati erano: basso costo delle case, un contenuto tasso di criminalita', un sistema sanitario e dell'istruzione che funzionano e un alto tasso di occupazione. Sempre la stessa rivista nella classifica delle piccole città (inferiori ai 500mila abitanti) posiziona Windsor al primo posto e colloca nella top ten altre quattro città canadesi.

Pongo l'accento sopratutto sul contenuto tasso di criminalità. Infatti Toronto, nonostante sia la seconda città del mondo per immigrazione - dopo Miami -, possiede l'area metropolitana con il più basso indice di criminalità del nord america, e la provincia dell'Ontario - è la più popolosa del Canada e la maggiormente interessata dal fenomeno dell'immigrazione - ha un tasso di criminalità ben al di sotto della media nazionale.

Possiamo quindi prendere ad esempio questa realtà per affermare con tutta sicurezza che il problema non è dettato dal fenomeno migratorio ma dalle condizioni economiche e dalle politiche, generali e di integrazione, dello stato che accoglie coloro che migrano. Toronto, città dalla forte economia e dall'alto livello culturale, ha fatto si che il multiculturalismo non fosse un problema ma un proprio punto di forza.
Cosi all'interno della metropoli abbiamo un intreccio di oltre 100 culture diverse che rendono Toronto una città aperta e dinamica oltreché un polo di grande interesse turistico grazie a quel sovrapporsi di stili e mentalità che danno alla città canadese non solo uno skyline da città moderna ma anche angoli suggestivi e turistici ed un grande impianto museale e culturale che ne fanno la quarta capitale mondiale della cultura.

Come detto però per far ciò è necessaria anche una politica di integrazione ben pianificata ed attenta alle esigenze dei vecchi come dei nuovi cittadini.
Giusto per confrontare le diverse realtà, mentre in Italia non abbiamo presso le forze dell'ordine un corpo di mediatori culturali ben formati per consentire un serio dialogo tra l'istituzione e la popolazione immigrata, il centralino del 911 (numero di emergenza di Toronto) è attrezzato per rispondere in oltre 150 lingue alle richieste di aiuto.
Quello appena fatto è solo un esempio, anche se a mio parere significativo. Per una panoramica più approfondita, sarebbe troppo lungo pubblicarla qui, a questo link potete leggere l'analisi di M. Lombardi (pag. 27 "Percorsi di integrazione degli immigrati e politiche attive del lavoro" ed. Franco Angeli) che ben illustra le politiche canadesi atte favorire l'integrazione sociale e culturale dei migranti. Un esempio di politiche da attuare anche nel belpaese.

In un mondo sempre più interconnesso e sempre più interessato dal multiculturalismo e dal fenomeno delle migrazioni, fenomeno mai scomparso, l'Italia non può sottrarsi dal mettere in campo politiche di integrazione. In caso contrario non potrà che evolvere verso un modello di società chiusa al resto del mondo e decretare cosi la sua sconfitta economica, oltreché culturale, con buona pace delle camice nere e verdi che con la loro subcultura razzista e ignorante difendono un'identità, che se non inesistente, quantomeno anacronistica.

domenica 11 dicembre 2011

Che cosa possono buttare a mare? [L'Italia sono anch'io]

Era il 16 Dicembre del 1773 e alcuni coloni americani appartenenti ai Sons of Liberty intonando lo slogan "No taxation without representation" gettavano a mare 342 ceste contenenti 45 tonnellate di tè.

Venendo alla situazione italiana di oggi, con milioni di immigrati regolari che lavorano - mandando cosi avanti la nostra economia - e che pagano le tasse sostenendo il nostro welfare senza aver alcun diritto politico, mi viene da domandarmi cosa potrebbero buttare a mare nel 2011.
342 ceste sono tante da riempire, ma penso che non avrebbero grandi difficoltà nel trovare qualcosa da metterci dentro. Tanto per iniziare escort, nani e qualche camicia verde, poi il resto vien da sé.

sabato 10 dicembre 2011

Dei post precedenti

Vorrei condividere alcune riflessioni che ho avuto modo di fare sfogliando oggi alcuni quotidiani locali.

Partiamo dal post "E noi siamo pronti?(Dell'ICI e del PD)" e quindi trattiamo dell'ICI in relazione alla Chiesa Cattolica.
Sulle edizioni odierne si sono susseguite interviste a vari esponenti politici di tutte le forze partitiche nelle quali ognuno rendeva conto del proprio pensiero e posizione.
Leggendo queste interviste abbiamo un principale dato di fatto: pochi di loro sanno di quello che stanno parlando. Molti dicono che la Chiesa, e le altre onlus, dovrebbero pagare l'ICI sugli immobili con scopi commerciali, mentre vanno tenute le esenzioni per gli immobili con scopi sociali o di culto. Ma il punto non è questo. Come detto nel precedente post la questione dell'esenzione dell'ICI grava su quegli immobili con doppia finalità, sia sociale sia commerciale. Quasi nessuno ha risposto nel merito della questione, quasi tutti si sono limitati a dire che gli immobili con finalità commerciale vanno tassati, quelli con finalità di culto o sociali vanno esentati.

---------

La seconda riflessione riguarda invece la manifestazione sindacale unitaria per la giornata di lunedì. In un precedente post motivavo la mia contrarietà ad uno sciopero generale unitario delle tre sigle sindacali.
Il mio desiderio è stato esaudito almeno a Brescia e in altre realtà locali. Infatti dai giornali apprendo che nella zona bresciana non si è trovato l'accordo per una manifestazione unitaria perché la UIL e la CISL chiedevano alla CGIL di far venire meno la manifestazione contro l'estensione del contratto stile Pomigliano a tutte le fabbriche FIAT, compresa quindi anche l'Iveco presente con uno stabilimento in città.
Le interviste pubblicate sul BresciaOggi ci danno l'ennesima dimostrazione di come CISL e UIL non siano interessate ad una vera critica sindacale delle problematiche del mondo del lavoro italiano, ma cercano unicamente un riconoscimento formale da parte del Governo Monti.

venerdì 9 dicembre 2011

E noi siamo pronti? (Dell'ICI e del PD)

Negli ultimi giorni a seguito della manovra economica imposta dal Governo Monti, a causa della sua, secondo molti, iniquità, si è nuovamente sollevato il polverone sul mancato pagamento dell'ICI, da parte della Chiesa Cattolica, sugli immobili parzialmente commerciali - secondo il decreto legge n. 223/2006 l'esenzione per gli immobili di proprietà ecclesiastica «si intende applicabile alle attività che non abbiano esclusivamente natura commerciale».

Fino al suddetto decreto legge il pagamento dell'ICI - oltreché dal concordato Stato-Chiesa - veniva regolato dal Decreto Legislativo 30 Dicembre 1992 n.504 che richiamando il D.P.R. 22 Dicembre 1986 n. 917 sanciva che erano esentati dal pagamento dell'ICI gli immobili degli «enti pubblici e privati diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali» che erano «destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive».
Si comprende bene che rientrano in questa definizione solo gli immobili della Chiesa Cattolica, cosi come di altre confessioni, adibite esclusivamente a fini spirituali ed assistenziali. 

Nel frattempo la Cassazione (sentenza n. 4645 dell’8 marzo 2004) si è espressa confermando l'obbligatorietà da parte della Chiesa Cattolica di versare l'ICI anche per gli immobili parzialmente adibiti ad attività commerciale. Nonostante ciò il Governo Berlusconi nella finanziaria del 2006 esenta completamente gli immobili di proprietà ecclesiastica, anche con scopi commerciali, dal pagamento dell'ICI. 
Poco dopo cambia il governo e nell'estate del 2006 l'allora Governo Prodi stila il decreto legge n.223/2006 che non torna alla regolamentazione del 1992, ma aggiunge la frase sopraddetta che esenta dal pagamento dell'ICI anche le strutture con fini parzialmente commerciali. Se ciò sia stato fatto in buona o in  malafede questo non ci è dato saperlo, ma fa quanto meno pensare su quale sia oggi l'alternativa nel campo del centrosinistra ad un governo Berlusconiano almeno nel campo dei rapporti con la Chiesa Cattolica. Il Decreto Legge porta in calce le firme di: Prodi, Padoa Schioppa, Bersani in qualità di responsabili dei rispettivi incarichi dell'epoca.

Una decisione certo non felice visto che a seguito della denuncia dei Radicali la Commissione Europea ha deciso di avviare un'inchiesta per sospetti aiuti di Stato alla Chiesa Cattolica nei confronti dell'Italia. 
In particolare i Radicali e successivamente la Commissione Europea si è concentrata su quegli immobili che nell'arco di un anno assumono in alternativa o contemporaneamente sia l'aspetto commerciale che l'aspetto spirituale e/o assistenziale.


È ora utile, per proseguire nel discorso, capire quali siano gli importi di cui stiamo parlando anche considerando che la Chiesa Cattolica, anche attraverso molti enti ad essa collegati, è oggi proprietaria di circa il 22-25% dei valore immobiliare sul suolo italiano. Molti giornalisti ed associazioni si sono occupati della tematica e i dati a disposizione cercando in internet sono dei più vari. La stima che sembra più attendibile è quella che fa la UAAR che quantifica il costo per lo Stato Italiano in mancato pagamento in circa mezzo miliardo l'anno. Una cifra che si posiziona nel mezzo tra quella stimata dall'ANCI nel 2005 (300 milioni di euro) e quella stimata da alcuni libri-inchiesta che stimano la perdita in un miliardo l'anno.

Una cifra comunque considerevole - la città di Roma perde secondo l'ANCI qualcosa come 25-26 milioni l'anno - che in un momento di crisi economica e di profondi tagli strutturali permetterebbe alle casse comunali di tirare un po' il fiato con una buona iniezione di liquidità. Proprio qui sta il punto. L'ICI è una tassa comunale e sostituisce dal 1992 molti dei trasferimenti statali ai comuni. Ma essendo comunale, in mancanza di regole certe è fortemente soggettiva sopratutto se la gestione dei comuni è influenzata da lobby od interessi di enti ed associazioni. In questo senso è emblematica la dichiarazione del ministro Riccardi: «Credo che le attività di culto, culturali della Chiesa siano una ricchezza per il Paese e quindi l'Ici-l'Imu non va pagata. Per quelle che possono essere le attività commerciali gestite dalla Chiesa, dai religiosi, dalle associazioni cattoliche vigilino i Comuni o chi è preposto a questo per vedere se l'imposta viene pagata e intervenga. Inutile fare una grande battaglia. Si tirino fuori i casi, si valuti caso per caso e si intervenga: se c'è stata mala fede - ha concluso Riccardi - si prendano le misure necessarie».
Tralasciando la facile polemica sul fatto che sono importanti tutte le attività di culto e non solo quelle della Chiesa Cattolica e tralasciando il fatto che la polemica è nata su quelle attività non esclusivamente di culto o di assistenza, nelle parole del Ministro troviamo un profondo senso di realismo. 

Siamo cosi sicuri che in un'Italia ancora cosi fortemente influenzata e sottoposta alle gerarchie ecclesiastiche i comuni abbiano la forza, o l'interesse, a far pagare l'ICI alle strutture della Chiesa Cattolica che abbiano delle finalità parzialmente commerciali? Se la malafede è fatta dal controllore ancor prima che dal controllato non è forse il caso che intervenga lo Stato centrale per normare una situazione denunciata anche dalla Corte di Cassazione? E infine, è pronto il Partito Democratico, a Roma e negli enti locali a farsi portavoce di questa istanza? O ci limiteremo a bollare come demagogica l'ennesima proposta dell'IdV per mantenere uno status quo utile a tutti tranne che al paese?

giovedì 8 dicembre 2011

Crumiri e sindacati tutti insieme amichevolmente

«Al momento non ci sono le condizioni per una manifestazione unitaria» lapidarie le parole di Damiano Galletti, segretario generale della CGIL bresciana.
Il riferimento, pur essendo alla manifestazione della FIOM cittadina indetta per la giornata di lunedì 12 Dicembre, apre un serio interrogativo sulle tre ore di sciopero indette per lunedì da tutte e tre le sigle unitarie.

Come me, molti altri iscritti o simpatizzanti CGIL si stanno domandando il senso di indire uno sciopero insieme alle due sigle che fino all'ultimo sono state dalla parte del Governo Berlusconi - come i topi hanno abbandonato la nave quando stava affondando - ed ancora oggi appoggiano Marchionne e il suo progetto di fabbrica Italia - in parole povere chiudere tutto.
Prese di posizione che fanno di conseguenza venir meno la credibilità di uno sciopero indetto dalle tre sigle unitariamente. Ci si domanda qual è il senso di uno sciopero di due ore, come all'inizio volevano CISL e UIL, se non quello di mostrare i muscoli al governo per essere presi nuovamente in considerazione, come dal Governo Berlusconi, non tanto sulle tematiche, ma solamente per avere un'investitura politica e personale davanti al paese e nei tavoli governativi. Come traspare dalle stesse parole dei due segretari nazionali, Angeletti e Bonanni, lo sciopero non è causato tanto da quanto proposto all'interno del pacchetto lacrime e sangue del Governo Monti, ma da come questo è stato proposto: senza aver prima sentito su tutti i provvedimenti il parere dei due sindacati filo governativi. In altre parole non è il provvedimento in se che ha fatto male alla CISL e alla UIL, ma è la figura da idioti che gli ha fatto fare nei confronti dei propri iscritti.

Per rifarsi un'immagine Angeletti e Bonanni non potevano che indire uno sciopero farsa per pesare la loro forza nei confronti del governo. Un peso che verrà sicuramente aumentato dall'adesione della CGIL nazionale. In tal modo il sindacato guidato dalla Camusso non farà altro che legittimare dei sindacati di crumiri consentendogli di rientrare con forza al tavolo governativo e di rompere, con molta nonchalance, l'unità sindacale il giorno stesso della chiamata del Prof. Monti.

Personalmente, ed invito tutti gli iscritti ed i simpatizzanti della CGIL a farlo, lunedì non sarò in piazza a manifestare.

mercoledì 30 novembre 2011

Autogol in casa ex DS

Alcune dichiarazioni di Aldo Rebecchi pubblicate da vari quotidiani nella giornata di ieri sanno molto di autogol politico.

Quando qualche tempo fa durante un confronto con alcuni docenti questi mi dissero che un docente che andava in pensione troppo presto sarebbe stata una perdita difficilmente sostituibile per la società accademica, risposi che a mio avviso il compito di un docente, oltreché insegnare e fare ricerca, è anche quello di creare e preparare i futuri ricercatori e docenti cosi da permettere un proseguo dell'attività scientifica senza grandi perdite anche nel momento del pensionamento del docente.

Reputo che lo stesso discorso sia applicabile anche alla sfera politica ed amministrativa. L'azione del politico e/o amministratore si valuta certamente nelle sue opere e nella sua gestione del bene pubblico, ma anche, e forse sopratutto nella preparazione di nuove leve che possano rappresentare la nuova classe dirigente e proseguire nel lavoro iniziato dal maestro.


Aldo Rebecchi nelle sue dichiarazioni ai giornali, oltre a parlare di primarie e del ruolo che dovrà avere il Partito Democratico nella corsa per la Loggia 2013, indica una serie di nomi di futuri - in là nel tempo - possibili candidati sindaco dopo l'esperienza di Emilio Delbono. I nomi fatti dal politico bresciano non sono certamente sconosciuti e godono di largo apprezzamento nel panorama politico italiano: Manzoni, Martinuz, Ungari, Bazoli, Muchetti.

Fatti i nomi è però utile capire quale sia la storia politica pregressa di queste cinque persone, non per uno sterile gioco di vecchie appartenenze, ma per capire dove sia l'autogol di Rebecchi.
Se osserviamo le storie dei nominati scopriamo che tutti e cinque hanno una storia politica che inizia all'interno della Margherita, addirittura nei popolari per i più vecchi. Abbiamo cosi che un esponente ex Ds - è stato parlamentare dal 1987 al 2001 rispettivamente con PCI, PDS, DS - certifica che l'attuale e futura classe dirigente cittadina è stata formata quasi interamente nelle fila dell'allora Margherita.

Dove sta il problema? Non certo nei nomi. Il problema sta nell'incapacità della vecchia classe dirigente Ds nel formare le nuove leve, e quindi gli attuali e futuri amministratori del città e del paese. Incapacità che già confermata nei fatti viene adesso solo certificata dalle parole di Rebecchi.
Un'uscita quindi che dovrebbe portare, anziché ad impartire lezioni politiche, ad un profondo mea culpa avendo fatto parte lui stesso della classe dirigente degli allora Democratici di Sinistra.
Un mea culpa che se deve partire da lui, non può limitarsi alla sua sola persona ma deve allargarsi a tutti coloro che con il proprio operato hanno lasciato un buco generazionale di rappresentanza politica nella sinistra cittadina.

Cosi ritornando alla considerazione iniziale, non possiamo che bocciare la vecchia classe dirigente Ds incapace di lanciare uno sguardo verso il futuro.

domenica 27 novembre 2011

Altro che porta, i buoi scappano per la mancanza di un recinto

Durante il convegno dei Cattolici bresciani del Partito Democratico il Sen. Galperti ha detto "no ad un partito con le porte girevoli".

Personalmente se fossi un dirigente del Partito Democratico prima di pensare alle porte penserei a costruire i muri portanti. In caso contrario c'è il rischio serio che i buoi anziché scappare ed entrare dalla porta girevole entrino ed escano grazie alla mancanza di un recinto.

L'incontro di ieri è stato significativo per capire dove si accinge, o dove vorrebbe accingersi, ad andare il Partito Democratico non solo bresciano.
Aldilà delle solite frasi di circostanza, quello che appare evidente dall'incontro agli Artigianelli è che lo scetticismo sulla direzione intrapresa dal Pd non è presente solamente a sinistra, ma è diffusa in tutte le sensibilità, anche tra i cattolici, quelli che da sempre sembrano i più convinti della scelta fatta nel 2007.

Il governo Monti, con il forte richiamo all'impegno attivo del Partito Democratico - impegno a questo punto non solo di opposizione -, sta facendo emergere le molte contraddizioni di un soggetto che ha sempre posticipato, fin dalla sua nascita, un confronto serio ed approfondito sui temi portanti dell'incontro tra due culture.
Un confronto mai affrontato che ha spinto nella giornata di ieri alcuni esponenti cattolici del Pd bresciano a dichiarare come alcuni temi - il testamenti biologico, la questione morale ed altri - non siano condivisi, e siano quindi elementi di rottura, all'interno del Partito Democratico. Temi questi che una forza progressista moderna ed europea non può permettersi di non affrontare nella loro interezza, e che sopratutto la base chiede di affrontare come ha dimostrato la buona percentuale di voti presi dal Sen. Marino durante l'ultimo congresso del Partito Democratico.
Un aut aut quindi da parte dell'ala destra che cerca di fermare alcuni dibattiti su temi caldi come quelli sopra detti. Per questo non dobbiamo stupirci di aver assistito nella giornata di ieri ad alcune dichiarazioni critiche e preoccupate anche da esponenti di primo piano della destra del partito (Peli e Manzoni su tutti) che azzardano anche alcune frasi dalle tinte fosche e piene di malumori sul loro non riconoscersi pienamente nella struttura e nei valori fondanti del Partito Democratico.

Se andiamo oltre ai malumori dei singoli possiamo però scorgere le grandi manovre dei cattolici del Partito Democratico. In questo periodo, in vista probabilmente di un congresso neanche da loro richiesto, si stanno attrezzando e stanno provando a mettere in piedi manovre di convergenza che possano lasciarsi dietro alcuni strascichi ereditati da alcune vecchie divergenze nell'allora Margherita.
Emblematico in questo senso incontrare anche esponenti del centro che in passato avevano preso strade diverse - Frati, Del Bono - dalla corrente principale.

E mentre i cattolici cercando prove di unità, dalla parte opposta gli ex Ds continuano ad azzannarsi tra di loro rievocando antiche rivalità non solo politiche.



venerdì 25 novembre 2011

Operazione Red Christmas: 2 anni dopo

Scorrendo la pagina web di Repubblica mi sono imbattuto per caso in un articolo che racconta di come una docente della Bicocca presti il proprio ufficio ad una studentessa - mussulmana - per permetterle di pregare non avendo ella altri luoghi a disposizione per espletare questa necessità spirituale.
Nel leggere ciò mi è venuta alla mente una iniziativa analoga che come Progetto Ingegneria e Studenti Per portammo avanti all'incirca due anni fa.
Era il periodo durante il quale la provincia bresciana era balzata agli onori della cronaca nazionale per alcuni provvedimenti razzisti e xenofobi di amministrazioni leghiste nella provincia. Il white Christmas di Coccaglio e l'ordinanza anti immigrati a Trenzano avevano riportato all'attenzione di tutti il serio problema di convivenza tra culture diverse ed in particolare l'arretratezza culturale di una certa destra italiana.
Cosi, consci che il l'università non è un mondo a parte ma si innesta all'interno della società, decidemmo di lanciare una nostra proposta/provocazione con il nome in codice di Red Christmas - per fare il verso alla famosa operazione coccagliese - invitando la stampa, bresciana e non, ad una conferenza stampa. E' inutile dire che all'epoca fummo snobbati da tutti i giornalisti, probabilmente troppo impegnati a scrivere di luci ed addobbi causa il Natale in avvicinamento.

Partivamo dal dato di fatto che molti studenti di fede non cattolica non avevano a disposizione alcun luogo di culto per poter espletare i propri obblighi di fede. La città, all'allora come adesso, non metteva a disposizione alcuna location raggiungibile per gli studenti stranieri. Proponemmo, anche se poi non se ne fece più nulla per l'opposizione dell'allora Rettore Preti, la creazione di due stanze multiconfessionali, una per il polo nord e l'altra per il polo sud. Nessun simbolo per includere tutti i simboli. Un luogo di incontro con la spiritualità personale nel pieno rispetto della spiritualità degli altri. Una stanza bianca, vuota di ogni cosa tranne che di alcune panche. Non una propaganda alla religione, ma un servizio che l'università avrebbe dovuto dare agli studenti per coprire una profonda mancanza della società.

Cosi ad un mese di distanza da quel giorno, condivido nuovamente con tutti il documento che Matteo Domenighini scrisse per conto delle due liste universitarie.

Le liste universitarie STUDENTI PER e PROGETTO INGEGNERIA sentono la necessità di intervenire per manifestare il proprio disagio per i recenti avvenimenti che hanno portato la nostra provincia di Brescia al centro dell’attenzione mediatica nazionale. Il riferimento è ai provvedimenti assunti da alcuni comuni del nostro territorio in materia di immigrazione e di integrazione culturale, ed in generale a quel clima di intolleranza che si fa sempre più avvertito e sempre più opprimente.
Non è nostra intenzione fare una polemica strumentale e fine a se stessa, ma introdurre nel nostro Ateneo una riflessione sul ruolo e sulla responsabilità che come istituzione esso deve esercitare nella società e nel territorio in cui è inserito. La scelta di assumere tale posizione di rilievo riteniamo non sia più rinviabile: è il tempo di decidere se accontentarsi di produrre solo semplici laureati o fare un passo avanti formando cittadini responsabili e civili.
Tanti e vari sono i fatti che ci sentiamo di denunciare in quanto assurdi, quando non abominevoli. Si parla di introdurre l’insegnamento del dialetto nelle scuole, mentre si cerca di internazionalizzare delle Università e mentre il 45% degli studenti universitari, secondo una recente ricerca, non padroneggia la lingua italiana.
Si parla di impedire ad una famiglia di seppellire un bambino in un cimitero, perché non battezzato, si parla di difendere la nostra religione da una presunta invasione e ci si dimentica il vero messaggio cristiano di solidarietà, accoglienza e rispetto reciproco.
In ultimo i fatti documentati nel servizio trasmesso nella puntata di giovedì 17 dicembre di AnnoZero. Si giustificano questi atti dicendo “chissà perché noi dobbiamo essere democratici mentre invece i loro paesi non sono democratici per niente”. E’ una risposta da Paese civile? Il nostro obiettivo è appiattirci verso il basso o, piuttosto, tendere ad una società più giusta?
Ancora più inquietante è sentire parlare i nostri coetanei, ossia il futuro della nostra società, di una democrazia solo per gli italiani, sentirli urlare slogan come “Italia agli italiani, fuori gli ebrei e gli africani”. È sempre più avvertito un clima di intolleranza, di sospetto, di volontà di prevaricazione e di affermazione di sé stessi non dimostrando le proprie capacità, ma isolando e combattendo gli altri, facilmente i più deboli.
Non ci si rende però conto che stiamo parlando di persone, di padri e madri, di bambini ed anche di quei tanti studenti che condividono con noi ogni giorno la vita universitaria, da cui ci distingue solo il luogo di nascita, ma che come noi passano le stesse giornate sui libri a studiare, in aula a seguire lezione, che hanno le stesse angosce pre­esame, gli stessi sogni di laurearsi.
La nostra Università, proprio in questo senso, è lo specchio del nostro territorio, raccoglie la stessa varietà etnica, culturale e religiosa, ospitando infatti un gran numero di studenti stranieri, che provengono da Paesi dell’Est Europa, dall’Africa, dell’America Latina, del Medio Oriente e dell’Asia.
Proprio da questo luogo che per tutti e da sempre è il luogo di cultura per eccellenza, quindi, deve partire un esempio forte di convivenza, tolleranza, rispetto reciproco e parità di diritti tra tutte le etnie.
Sottolineiamo comunque che finora nessun atto di intolleranza o discriminazione si è mai verificato o è stato denunciato; anche se qualcuno cerca anche qui di inserire questo clima discriminatorio, come la lista che durante la scorsa campagna elettorale universitaria proponeva di assegnare preferibilmente gli alloggi universitari agli studenti originari della nostra zona.
Riteniamo però che in questo momento sia fondamentale rendere visibile a tutta la nostra società questo modello; non significa sostenere un partito o l’altro, una religione o l’altra, significa dire: “Guardateci, una convivenza pacifica e tollerante è possibile”.
La proposta che presentiamo oggi, e prossimamente proporremo negli organi accademici, si inserisce nel solco di questo sentiero virtuoso.
Crediamo che convivenza pacifica fra le varie culture e religioni non significhi annullamento di ognuna di esse, ma che ognuna deve avere il suo spazio per poter essere “vissuta” rispettando le altre.
Proponiamo, quindi, che vengano individuati nel nostro Ateneo due luoghi, uno per il Polo Ingegneria­Medicina ed uno per il Polo Giurisprudenza­Economia, in cui ogni studente può avere un momento personale di preghiera o riflessione. Si tratta di aule multiconfessionali in cui non sia presente alcun simbolo religioso, ma in cui ogni religione abbia il suo spazio, che è delimitato dal rispetto per gli altri che ne vogliono usufruire.
Inoltre sarebbe questo un luogo particolarmente utile per gli studenti fuori­sede degli alloggi universitari, i quali possono così avere uno spazio anche per questi momenti personali.
Sarebbe uno straordinario esempio di possibilità di incontro, che dallo stretto ambito universitario si espanda a tutto il territorio grazie agli studenti, elementi essenziali della società, che traducano ciò in comportamenti e atteggiamenti quotidiani a casa, con gli amici e in tutte le attività extra­ universitarie.

Avanza la schizofrenia?

Che il Partito Democratico abbia un so che di problematico se ne sono accorti tutti, dentro e fuori l'organizzazione, eppure si continua imperterriti nel voler aggiungere problemi ad altri problemi e cercare di farsi male a tutti i costi.
Non posso che leggere questo intento nella richiesta di un congresso da parte di esponenti di tutte le correnti, che, anziché preoccuparsi di analizzare in modo serio e senza preconcetti (da una parte e dall'altra) le proposte del governo Monti, pensano a come eliminare politicamente la fazione avversaria facendo leva su una richiesta di chiarimenti dettato dal nuovo impegno che il Partito Democratico ha nella maggioranza tecnica di supporto.
Per fortuna che il Partito doveva essere inclusivo. Cosi inclusivo che si chiedono le dimissioni di un membro della segreteria non per incapacità o nullafacenza, ma, perché la pensa in modo differente, e lo palesa, rispetto il richiedente le dimissioni. Poco o nulla importa se la linea votata dai delegati nel Partito sia quella del membro di segreteria.

Sotto questo aspetto non ci sarebbero dubbi nel dire che quella che avanza è la schizofrenia e non certamente il buonsenso. Ed ulteriore prova di questa avanzata arriva dall'ultimo sondaggio della Demos che nella giornata di oggi pubblica i dati sulle interviste effettuate chiedendo quale sia il gradimento per le possibili future manovre del governo Monti. Cosi scopriamo che nonostante i famosi liberal del Partito Democratico compaiano praticamente su ogni testata giornalistica la base del Partito, almeno sui temi economici, guarda da tutt'altra parte.
 
I dati sono chiari. Nonostante una parte consistente della dirigenza del partito - compreso il senatore Ichino - continui a parlare di riforma del mercato del lavoro per rendere più semplici i licenziamenti, il 79,9% degli elettori del Pd sono contrari a questa tipologia di riforma. Contrarietà che, seppur in maniera inferiore, si conferma anche nel campo della riforma delle pensioni altro punto caldo di discussione all'interno del Pd. Una schizofrenia che si configura con i sintomi di uno sdoppiamento della personalità. Da una parte la base che guarda verso sinistra, dall'altra parte una dirigenza, o meglio una parte della dirigenza, che guarda verso il centro.
Ma allora perché arrivano a essere cosi fortemente considerati coloro che chiedono che il Pd porti avanti una linea economica liberista? In un partito democratico non dovrebbe essere a base a dettare e votare l'agenda politica dello stesso, e non l'ha forse fatto durante l'ultimo congresso quando è stato eletto a segretario Bersani? Non c'è da stupirsi. Come è avvenuto durante la prima Repubblica con i partiti di sinistra, una buona parte dell'opinione pubblica italiana spinge per una svolta neocentrista e liberista del più grande partito d'opposizione che viene cosi, risaltando a mezzo stampa le correnti centriste, descritto come desideroso di politiche nuove - sempre che il liberismo si possa considerare tale - e di lasciarsi dietro l'ala di estrazione socialdemocratica.
Come spiegare altrimenti l'improvviso feeling del Corriere della Sera, per non parlare del Foglio, con le correnti neoliberiste del Partito Democratico che con l'avvicinarsi della caduta del governo Berlusconi vedono una vera e propria escalation di presenze e di appoggi su questi, ed altri, quotidiani?  Oggi i media non si accontentano più di distorcere la verità. Essi la smontano pezzo per pezzo per poi rimontarla a proprio piacimento per dare una visione costruita a tavolino della realtà ed influenzare cosi le scelte dell'opinione pubblica. C'è chi si illude di aver sconfitto Berlusconi, ma cos'è tutto questo se non l'ennesima potenza del modello di egemonia culturale rivisto in chiave berlusconiana?

Partendo da queste considerazioni non si può che pensare che uno scenario peggiore non potrebbe esserci. Un partito politico che non solo non ha ancora trovato una propria collocazione nell'arco politico nazionale, ma che addirittura si fa imporre i temi e i tempi da parte di fantomatiche sensibilità che esistono solamente nei media amici.

Calo di iscrizioni all'università italiana


Il grafico mostra l'andamento in percentuale di nuove matricole in rapporto al numero di studenti diplomati rispetto l'anno scolastico precedente. Lo studio compiuto dall'Istat - il grafico è stato preso dal loro sito - analizza una serie storica che va dall'anno accademico 2002/03 per arrivare solo fino all'anno accademico 2008/09, non essendo disponibili all'atto della ricerca i dati degli ultimi A.A. Analizzando comunque i dati relativi agli ultimi anni possiamo vedere che c'è una consistente diminuzione di immatricolati che persiste anche negli ultimi anni non coperti dallo studio effettuato dall'Istat.

L'università italiana è sempre meno percepita come una tappa fondamentale per l'inserimento nel mondo del lavoro o come ascensore sociale.
Sempre più giovani italiani preferiscono direttamente l'immissione precaria nel mondo del lavoro, anziché investire dai 3 ai 5 anni nel mondo universitario. Questo perché per molti indirizzi di studio universitari la precarizzazione del lavoro post-laurea è ormai una realtà consolidata all'interno di un mondo del lavoro sclerotizzato ed incapace di riconoscere, e valorizzare, le capacità acquisite anche in campi non tecnici.
Capita cosi che gli studenti di percorsi di studio umanistico abbiano d'innanzi a se l'unica prospettiva dell'insegnamento, mentre in altri mercati - sotto questo punto di vista sicuramente più avanti di quello italiano - essi sono visti come una fondamentale e basilare risorsa intellettuale nella parte gestionale ed amministrativa delle aziende.

Inoltre se a ciò aggiungiamo che negli ultimi due anni l'università italiana è stata duramente attaccata dai media nazionali, per scandali veri o presunti, che ne hanno minato la credibilità giungiamo a comprendere il motivo per il quale molti studenti abbiano perso fiducia nell'istituzione universitaria.

Infine, sempre negli ultimi due anni, con il netto e quasi totale - 95% - taglio del fondo per il diritto allo studio si è esclusa un'ulteriore percentuale di studenti. Il ruolo di ascensore sociale, intrinseco nell'istituto universitario viene meno e coloro che non possono permettersi gli studi se non aiutati dallo Stato fanno venir meno la propria iscrizione.

lunedì 21 novembre 2011

Un'Italia senza democrazia? Per molti è possibile

In Italia esiste un problema Democrazia.
E non mi riferisco al nuovo governo Monti, come qualche malpensante potrebbe sostenere, che è in piena regola con quanto dettato dalla Costituzione, ma alla scarsa percezione, e fiducia, che gli italiani mostrano verso la forma di governo che da il potere al popolo.

Secondo una ricerca dell'istituto Demos dal titolo "Gli italiani e la democrazia" risulta che solo il  67.4% degli italiani ritengono la democrazia come "preferibile a qualsiasi altra forma di governo", mentre un 22.7% - quasi un cittadino su 4 - ritiene che non ci sia alcuna differenza tra un regime democratico e un regime autoritario.

Gli italiani sono ancora alla ricerca del leader carismatico e populista, dimenticando le esperienze del ventennio, non solo fascista. I numeri confermano questa mentalità che da sempre domina le menti del popolo italiano, già da quando ancora non erano un abitanti di un unico Stato.

Opinioni queste che se insiste nella filosofia dell'italiano medio, sono state rafforzate negli ultimi anni anche dalla profonda crisi del sistema politico italiano. Infatti come ci fa notare la seconda tabella la percentuale di coloro che preferisce la democrazia sopra ogni altra forma di governo va calando dal 2008 ad oggi (tra il 2001 e il 2008 c'è una leggera crescita a scapito delle altre due classi) con una flessione di circa 4 punti percentuali. Un calo leggermente più contenuto (-2.9%) anche per chi pensa che il regime autoritario possa essere una soluzione preferibile solo in alcune circostanze. Una buona percentuale di italiani si riversa quindi nell'ultima classe di italiani, quella che pensa che non ci sia alcuna differenza tra i due sistemi politici - +6,5%.
Una crescita netta dettata, come già detto, dalla crescente sfiducia nella classe politica italiana che di riflesso colpisce anche il sistema democratico.
Non è certo un caso che la sfiducia verso il sistema democratico cresca nel momento in cui la legge elettorale impedisce agli elettori di indicare le preferenze per i propri parlamentari, e a seguito del susseguirsi di scandali politici e giudiziari e di continui cambi di casacca da parte dei parlamentari.
La percezione che i politici una volta eletti facciano esclusivamente i loro interessi, porta, con una punta di populismo e demagogia alimentata a dovere, ad una sfiducia generale verso il sistema democratico non essendo in grado di distinguere tra sistema politico e politici. L'ultima tabella della ricerca è anch'essa significativa. Suddivide gli intervistati in base alle intenzioni di voto.

La tabella ci fa notare che, nonostante quanto si dica, gli elettori più affezionati alla democrazia siano coloro che dichiarano il proprio voto per Sinistra Ecologia e Libertà, seguiti - a 4 punti percentuali - da quelli dell'UdC. A solo 9 punti di distacco - comunque terzo partito - gli elettori del Partito Democratico, cui nonostante il nome ben il 16% degli elettori sono indifferenti al sistema di governo. Un campanello di allarme questo che dovrebbe indurre i dirigenti del partito ad una profonda analisi del proprio elettorato e a conseguenti misure per migliorare la percezione della politica presso di loro. Decisamente molto più grave invece la situazione nei partiti del centrodestra. Sia Lega Nord che il PdL superano di poco il 50%, mentre coloro che sono indifferenti superano il 30% degli elettori.

Infine, sempre parlando di problema democratico in Italia, riporto la tabella di un'altra ricerca condotta sempre da Demos dal titolo "Il governo Monti ha la fiducia degli italiani".
In una delle domande, si chiedeva agli intervistati, se in base alla sua idea di democrazia la scelta di formare il governo Monti era legittima o meno.
E' preoccupante notare come solo per il 22.5% degli intervistati - con elettori del Pd ed UdC, i partiti che più hanno sponsorizzato questo governo, che alzano sensibilmente la media - il governo Monti è legittimo, mentre invece ben il 65,8% degli intervistati ritiene il governo non legittimo ma giustificato solamente dalla grave crisi in cui versa lo Stato italiano.
Tralasciando il fatto che secondo la Costituzione questo Governo ha la stessa legittimità di quelli che l'hanno preceduto, avendo avuto questa legittimità direttamente dal parlamento, unico organo deputato a darla, torniamo sulla percezione di democrazia che ha il popolo italiano.
Ancora una volta il popolo italiano accetta una limitazione della democrazia - tale è se non considera il governo legittimo - a fronte di una situazione di emergenza.
Su questo piano il sistema politico, e quindi i partiti, tra cui in primis anche il Partito Democratico anche per la storia che si porta dietro, dovranno lavorare sodo per riportare tra il popolo italiano la convinzione che la democrazia sia un qualcosa di imprescindibile per qualsiasi paese libero.
Tale azione, dettata anche da quanto sopra esposto, non può che partire da un completo ricambio della classe dirigente italiana.

venerdì 18 novembre 2011

Il PTA contro la ristrutturazione dell'Ateneo

A proseguire le agitazioni in tutta Italia nell'ambito universitario non sono solamente gli studenti che chiedono un miglioramento del sistema del welfare studentesco.
Con la riforma Gelmini sono profondamente cambiati anche gli assetti amministrativi interni - giusto per citare quello più famoso, la scomparsa delle facoltà. A seguito di ciò l'amministrazione dell'ateneo bresciano, nella persona del Direttore Amministrativo, ha avviato una profonda ristrutturazione organizzativa che comporterà ricollocamenti e nuove mansioni per molti degli impieghi oggi a servizio presso l'Ateneo.
Ciò, unito alla scarsa condivisione del progetto e alla scarsa informazione dell'Ateneo presso i propri dipendenti, ha comportato la convocazione di un'assemblea del personale da parte delle RSU.

L'assemblea dopo un lungo confronto e con il parere contrario della componente della CGIL ha votato e pubblicato il seguente documento


MOZIONE APPROVATA DALL'ASSEMBLEA DEL PERSONALE T.A.

DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BRESCIA

del 18/11/2011

Premesso che il cambiamento organizzativo e lavorativo non può essere fonte di preoccupazione per chi come il PTA universitario, si è trovato a dover affrontare riforme continue, che si sono succedute negli ultimi quindici anni,

RITIENE

non sia accettabile subire un trattamento che ha come retropensiero una considerazione negativa del personale che discende direttamente dalla propaganda contro il pubblico impiego.

CHIEDE

- di cessare di applicare una riforma che ancora non può essere operativa,

- la sospensione del decreto unilaterale di riassetto organizzativo dell'Amministrazione centrale e la sospensione dei processi di accorpamento dei Dipartimenti, ed avvio di un contestuale confronto sugli obiettivi e sugli strumenti di un modello organizzativo che deve essere condiviso.

L'assemblea si riserva di intraprendere eventuali iniziative a difesa del personale Tecnico amministrativo.

Personalmente mi ritrovo nella linea espressa dai delegati CGIL. La riforma Gelmini è ormai legge e l'Ateneo cittadino necessita di ristrutturarsi per rispondere alle nuove regole e servizi. Questa intento dev'essere però compiuto con il fine di razionalizzare le spese e non tagliare i servizi o il personale, che ricordo, se confrontato con i corrispettivi delle altre università d'Italia sono i meno remunerati.
Al contempo bisogna riconoscere che l'amministrazione non è sempre stata tempestiva e chiara nelle comunicazioni al personale tecnico amministrativo. Problematica questa emersa anche durante l'ultima seduta del Senato Accademico, quando, discutendo della soppressione del CEDISU e dell'accorpamento del servizio bibliotecario, sia la delegata del PTA, la Dott.ssa Antonella Melito, sia i presidi Prof. Canziani e Prof. Belfanti hanno reso nota la scarsità di informazioni pervenute al personale amministrativo e la loro conseguente preoccupazione.
Se a ciò uniamo le sempre più insistenti voci, anche a mezzo stampa, di una prossima fusione con l'Università di Bergamo arriviamo a comprendere per quale motivo gli impiegati della Statale bresciana abbiano prodotto la mozione sopra pubblicata.

Ancora una volta come studenti ci auspichiamo che l'amministrazione e i dipendenti possano sedersi ad un tavolo e ragionare insieme circa la riorganizzazione amministrativa dell'Ateneo cittadino.

Di una scommessa vinta

Diamo a Cesare quel che è di Cesare.

Quando la vecchia amministrazione comunale ha avviato il progetto BiciMia ci aveva visto lungo. Un progetto ambizioso che ha permesso a Brescia di essere tra le prime città italiane ad avviare un progetto di Bike sharing. Un progetto che molti avevano battezzato come non autofinanziabile ed ambizioso.
Autofinanziabile non lo è, e probabilmente non lo diverrà mai, ma è giusto cosi. La politica dei primi 45 minuti d'uso gratuiti ha una sua logica, che si risolve nell'incentivare la popolazione all'utilizzo della bicicletta per i piccoli spostamenti. E su questo piano ci aiuta l'Europa che lo finanzia largamente attraverso i bandi per la mobilità sostenibile.

Anche definirlo ambizioso si è poi rivelato errato. A qualche anno di distanza il progetto non solo è ancora vivo, ma è in forte espansione con un sempre crescente numero di biciclette (400!) e di postazioni (siamo a 39, ma ne sono previste altre). Un progetto cosi apprezzato dalla popolazione che l'attuale amministrazione ha dato avvio alla seconda fase, quella dell'allargamento verso la periferia della città.

Parlo dell'attuale amministrazione perchè per onestà intellettuale bisogna rendere merito anche a chi ha proseguito nel lavoro impostato, e voluto, dai predecessori. Una dimostrazione questa che le idee non sono obbligatoriamente di destra o di sinistra, ma che alcune idee non possono che essere bipartisan.

Ma senza utenti qualunque progetto sarebbe destinato a fallire. E cosi non possiamo che rendere merito agli studenti universitari - la maggior fetta di utenza secondo i dati di Sintesi Brescia - che più di altri hanno creduto, anche attraverso le loro rappresentanze e Matteo Giacomini su tutti, nel progetto e nell'idea di una città caratterizzata dalla mobilità sostenibile.