mercoledì 28 dicembre 2011

[TIME] La proprietà dei media

Un altro articolo tradotto dal TIME. Questa volta l'articolo in questione "Looking Forward to 2012: The End of Media Ownership" scritto da Graeme McMillan tratta delle nuove modalità con cui i media distribuiranno i propri contenuti. 

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Guardando al 2012: la fine della proprietà dei media

Ah, la settimana finale tra il Natale e il nuovo anno, quando guardiamo indietro a tutto quello che è successo, e in avanti verso l'anno che arriva. E che anno arriva – uno che potrebbe portare non solo l'apocalisse predetta dai Maya, ma anche la corsa attorno al mondo di John Cusack per salvare l'umanità. Che cosa sto aspettando? Qualcuno che finalmente rompa la mentalità sulla proprietà dei media, naturalmente. (la proprietà intesa come possesso del supporto fisico del contenuto: libro, dvd ecc... E' il concetto di cloud ndt)
Lo so, tu pensi che io sia pazzo, ma pensaci: se c'è una sola cosa che il 2011 ci ha insegnato, è che i media sono vaporware (vedi wikipedia per il significato ndt) e che non necessitiamo realmente di nulla di nostro. Netflix (tra gli altri) attraverso lo streaming ci mostra i film e gli spettacoli televisivi che desideriamo, e lo stesso fa Spotify (o Pandora, o chiunque) facendolo con la musica. I siti web hanno, da qualche tempo, provato che tu non necessiti di comprare il giornale, e sia Amazon che Apple stanno lavorando ad una versione digitale di manoscritti (o, come li chiamiamo noi, “libri”). Perchè qualcuno di noi dovrebbe voler comprare qualcosa in questi giorni, quando ci sono gli abbonamenti che permettono di accedere a qualsiasi cosa ponendoli a portata di mano?
Certo, devo ammettere che ci sono alcuni difetti in questa visione. Per prima cosa, non tutti sono entrati nell'idea che i media sono qualcosa a cui ci si abbona come ad una scatola, o che non si possano selezionare individualmente come si farebbe con un album, un DVD o un libro. Ma questi pensieri appaiono come dei messaggi dal passato, e si scontrano con la crescita delle compagnie di noleggio come Spotify, Netflix, ma anche – più importante – la mentalità degli spettatori di pagare una volta al mese per tutto quello che si può mangiare (il concetto di flat ndt) avrà lo stesso impatto che si è avuto nei primi giorni di protesta contro la musica digitale (che è dir poco, semmai).
Per diversi aspetti, questo nuovo mondo è il culmine del peggior scenario degli allarmisti sulla musica digitale, con lo spostamento della mentalità del consumatore da “possedere un oggetto fisico che rappresenta il lavoro creativo” a “possedere un file digitale che rappresenta il lavoro creativo” evolvendosi in “accesso a un file digitale, ma senza che questo sia tuo”. Quello che cambierà per tutti quelli coinvolti nella creazione dei contenuti multimediali non è ancora chiaro. Considerando le domande dal punto di vista finanziario: I diritti di noleggio sostituiranno i diritti di vendita in una quantità pari a quella attuale? Saranno trovati finanziamenti alternativi per i contenuti (il crowdsourcing attraverso Kickstarter ed altri, per esempio)? Trovare domande a tutte queste domande senza risposta non sarà facile.
Ma a dispetto delle incertezze ci siamo quasi, non è cosi? Noi abbiamo già la radio e la televisione in streaming web. Quello che sto aspettando dal 2012 è qualcosa che porti tutto questo insieme, un solo punto di accesso che riempia la nostra televisione, che porti film, musica e contenuti testuali, il tutto ad un abbonamento mensile dal basso costo. Può tutto questo essere lontano? Quando queste cose sono in arrivo, si tratta solo di chi arriverà a proporle, io vedo un trio di volti noti: Amazon, Apple e Google. Tutti e tre le compagnie hanno fatto investimenti nel digital media che hanno coinvolto i grandi creatori di contenuti mediatici, e queste partnerships fanno si che essi siano i più equipaggiati per effettuare uno sforzo – applicazioni, piattaforme o semplicemente idee – che possa essere in grado di catturare sia i consumatori sia i creatori
Per entrambi i gruppi, si si riduce a facilità di utilizzo e costi, e con dei costi, la parte difficile è raggiungere un accordo tra le due parti: l'informazione vorrebbe essere libera, come recita un vecchio detto, ma l'economia dei media si basa sulle persone che pagano. Da dove proverrà il denaro – e quanti soldi saranno – sarà una delle prime domande al quale i media digitali dovranno rispondere nel 2012. Una volta risposto in modo soddisfacente per tutti a questa domanda, saremo più vicini di un passo alla saturazione dei media in un modo che avremmo solamente sognato appena un decennio fa.

martedì 27 dicembre 2011

[TIME] Più tasse, per favore: noi siamo francesi

Proseguendo nella traduzione di articoli dai quotidiani stranieri, oggi pubblico la traduzione dell'articolo dal titolo "More taxes, please: we're French" di Bruce Crumleypubblicato il 26 Dicembre sull'edizione online del TIME.


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Più tasse, per favore: noi siamo francesi

L'Europa potrebbe agonizzare nella peggior crisi finanziaria dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, ma questo non basta per costringere i francesi ad accettare una logica di liberismo economico come quella che domina in gran parte del mondo. Coloro che si basano su una visione “Aglosassone” da tempo criticano il welfare francese bollandolo come troppo costoso, insostenibile, non competitivo e sempre più indebitato – e adesso lo vedono condannato ad un'inevitabile dieta imposta dalla realtà. Ma come è d'abitudine dei francesi, stanno implorando di differenziarsi dal resto del mondo – e cosi facendo di difendere lo stato sociale, che è un motivo di profondo orgoglio nazionale, anche con soluzioni che altri stati non potrebbero sopportare.
E' vero, Parigi ha risposto alla crisi del debito – e alle minacce di perdere il rating AAA del credito – varando non uno, ma due piani di austerità per contenere il proprio deficit. E vero, anche, che alcuni dei tagli coinvolti riguardano il programma di protezione sociale francese. Ma cogliendo i dettagli della reazione francese, alcuni osservatori fanno notare come la Francia abbia mostrato ancora una volta la sua inclinazione ad opporsi alla saggezza comune (il taglio del welfare state secondo l'autore ndt) elaborando un piano di riduzione del debito che si basi, più che sulla riduzione dei diritti, su un considerevole aumento della tassazione. Benvenuti alla austérité à la française. Per il momento.
L'edizione domenicale del quotidiano francese Le Monde mette insieme diverse analisi del recente piano taglia-deficit svelato dal governo conservatore del Presidente Nicolas Sarkozy, e rilancia un famosa detto francese: “nel dubbio, alza le tasse”. E – forse perché la sensazione delle mani del governo francese nelle proprie tasche è normale – l'opzione di Sarkozy di alzare le tasse prima di tagliare i diritti, finora ha provocato poche proteste nell'opinione pubblica francese
Come racconta il Global Spin, il risparmio del piano francese nei primi due anni del piano si aggira sui 26 miliardi di dollari – su un totale che deve arrivare a 90 miliardi entro il 2016. Questo sforzo ha come obbiettivo la riduzione del deficit di bilancio della Francia dai 199 miliardi del 2010 a 103 miliardi di dollari entro il 2012 e iniziare cosi a restituire una parte del debito sovrano pari a 1.7 trilione di dollari (rappresenta poco oltre l'86% del Pil) nei prossimi due decenni. Ma in contrasto con la crisi che ha devastato paesi come la Grecia, la Spagna e l'Irlanda – i quali hanno drammaticamente tagliato la spesa, congelato o tagliato i salari degli impiegati pubblici e ristretto i fondi per i disoccupati e per i pensionati – i tentativi francesi di di bilanciare il budget del paese sono concentrati in primo luogo a potenziare le ritenute attraverso la tassazione. Nel 2012 solo il 24% dei risultati attesi da quelle misure verranno da una riduzione della spesa; il rimanente 76% sarà realizzato attraverso l'incremento delle entrate statale con la creazione di nuove tasse. L'anno seguente i tagli alla spesa rappresenteranno il 53% della riduzione del deficit di bilancio – una porzione in crescita al 64% nel 2016 secondo alcune letture del pacchetto. Altre analisi, tuttavia, stimano che poco più della metà dei guadagni nei prossimi cinque anni arriveranno da un aumento del flusso di introiti delle tassazioni – nonostante in media le previsioni di crescita annuale per i prossimi anni si attestano sull'1% - con il resto recuperato con tagli alla spesa attuale. Questo non è il tipo di smantellamento del welfare state sul quale molti liberali esteri avrebbero contato.
La ragione della strategia francese appare ovvia. Con le elezioni politiche in Aprile, Maggio e Giugno, i leader conservatori francesi appaiono consapevoli che i francesi di ogni estrazione politica odiano più vedere tagliato l'amato sistema del welfare e i programmi sociali che sentirsi toccare il portafoglio con un aumento delle tasse. Forse più di ogni altra società sulla terra – anche tra le nazioni europee che tendono ad amare il loro welfare states – i francesi non solo tollereranno una tassazione personale molto alta per finanziare il loro modello sociale, ma uniranno anche le varie tendenze politiche per difendersi dagli attacchi percepiti contro di esso. Essendo stato segnato dalle tante e proteste di massa riguardanti la riforma, l'impopolare Sarkozy è presumibilmente a conoscenza dei pericoli dei tagli ai programmi mentre si avvicina il difficile tentativo di rielezione – sempre sotto la pressione della crisi del debito.
Il leader francese presumibilmente tiene anche a mente che i governi di Grecia, Spagna, Irlanda e altri paesi dell'Eurozona sono caduti sotto la rabbia popolare per aver alzato le tasse e tagliato i programmi sociali tutti in una volta sola. Questa terribile lezione di quello che può portare ad usare un grosso bastone e nessuna carota non da alcun dubbio sulla forma da dare alla cura di Sarkozy: un approccio a due fasi per tagliare il deficit. (La Francia non è l'unica che segue questa via prudenziale. Nonostante le previsioni iniziali secondo cui il nuovo governo italiano avrebbe agito sull'emergenza crescente del debito sia ricercando nuove entrate fiscali sia garantendo profondi tagli ai programmi sociali, il Primo Ministro italiano Mario Monti ha varato un piano con molte nuove tasse e pochissime riforme)(ci sarebbe da discutere su questa osservazione del giornalista, sul fatto che non venga toccato il sistema di welfare italiano ndt).
Ma barando circa il suo sforzo nella riduzione del disavanzo con un'iniziale importanza dell'innalzamento delle tasse a causa dell'avvicinamento delle elezioni, Sarkozy può sistemare la Francia per una decisione di futura – maturando delle decisioni sull'opportunità di prolungare questo approccio o meno a metà del 2012. Il motivo? Gli attuali sondaggi indicano che sia Sarkozy che il suo governo conservatore saranno battuti dai rivali della sinistra che adesso corrono con la promessa di rivedere il back-end del loro deficit e il piano di riduzione del debito – e un cambio del target delle attenzioni fiscali. Gli avversari (ed alcuni analisti indipendente) denunciano che le misure adottate dai conservatori di Sarkozy pesano ingiustamente sulla classe media e sulle famiglie povere, mentre risparmiano i più ricchi. Fosse stata eletta la sinistra, non solo sarebbe incline a colpire i ricchi con molto più che un innalzamento temporaneo della tassa personale del 3-4% previsto dal piano di Sarkozy, ma scaverebbe in profondità nelle oltre 500 esenzioni che proteggono con varie modalità dalla tassazione sulla persona – molte delle quali fanno parte della Francia benestante. I soldi persi dallo Stato a causa di queste esenzioni sono ogni anno 90 miliardi di dollari – facendo mancare allo stato un introito vicino al deficit di bilancio atteso per il 2012. Per questa ragione alcune voci – tra cui alcune del centro e della destra – stanno cercando i ricchi del paese, che de facto sarebbe un risparmio fiscale che potrebbe essere di grande aiuto per l'attuale crisi del debito.
I conservatori francesi di contro ribatto che un aumento delle tasse per le classi agiati semplicemente provocherebbe una fuga di capitali all'estero presso nazioni come la Svizzera o il Lussemburgo – una mossa, sostengono i conservatori, che vedrà i governanti della sinistra aumentare le tasse a tutti i livelli a (parziale) copertura del deficit. Questa è un'accusa che suona ideologica, ma è un'improbabile eventualità. Con il livello generale medio di tassazione del 49.5% per famiglia nel 2010, anche molti economisti sfrenatamente di sinistra dicono che c'è un limite a quanto possono essere alzate le tasse prima che queste colpiscano seriamente il potere d'acquisto – e minare cosi i consumi e la crescita. (Questo può essere vero, ma tasse alte non sono sinonimo di rovina economica o finanziaria. Mentre la Francia è il più alta del 5% rispetto la media europea, è considerevolmente più bassa rispetto a economie robuste come la Svezia, la Danimarca, la Finlandia e la Norvegia). Al contrario, il dibattito in Francia è molto aperto sui ricavi non tassati che per il momento sono coperti da deroghe e scappatoie per i ricchi – e alcune aziende – con un consenso crescente tra il 99% sul fatto che lo Stato dovrebbe prendere più fondi dall'1% privilegiato. Nel frattempo si è anche parlato, nell'eventuale vittoria della sinistra il prossimo anno, della demolizione della complessa e spesso opaca struttura fiscale francese, e sostituirla con una struttura più snella, trasparente ed equa che sposti il peso maggiore della contribuzione sulle spalle dei redditi più alti.
Tutto questo non può che suggerire che c'è un consenso crescente e uniforme sul proteggere il welfare state attraverso l'innalzamento delle tasse – e dove tali aumenti dovrebbero colpire pù duramente. C'è un altro dibattito in Francia, come c'è negli USA o in UK, sulla correttezza, la saggezza o la produttività di “inzuppare i ricchi” con tasse più alte – e lo scontro di opinioni su questo argomento è frontale come in altre parti. Al contrario, il tema di usare le tasse per redistribuire la ricchezza – e salvaguardare il sistema di welfare nazionale nel processo – è non solo un'idea accettata, a differenza di altre nazioni più liberali economicamente come gli Stati Uniti, ma essa è vista come un slam dunk (termine americano per dire schiacciata a canestro, in questo contesto quindi assume un valore altamente positivo essendo la schiacciata molto apprezzata nel gioco del basket ndt) in Francia tale che solo poche persone hanno alzato la voce arrabbiate al vedere il proprio reddito anche più tartassato dal piano di Sarkozy. Quando gli economisti neoliberisti affermano che il welfare state è morto perché non può essere finanziato, i francesi rispondono sottolineando che una tassazione più alta può farlo (almeno fino ad un certo punto).
Segno che i francesi sono ancora francesi – e in un modo che non può non sconcertare e far sorridere le persone in qualsiasi luogo in ugual e opposta misura.

[Sguardo dal passato] La crisi dei partiti politici

Osservazioni su alcuni aspetti della struttura dei partiti politici nei periodi di crisi organica (da connettere con le note sulle situazioni e i rapporti di forza). A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe. Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericola, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all'attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici. Come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti (organizzazioni di partito in senso stretto, campo elettorale-parlamentare, organizzazione giornalistica) si riflette in tutto l'organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dall'alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell'opinione pubblica? In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito  in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza  il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi  intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di «crisi di autorità» e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso.
La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, mutua uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l'avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato. Il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell'intera classe è un fenomeno organico e normale, anche se il suo ritmo sia rapidissimo e quasi fulmineo in confronto di tempi tranquilli: rappresenta la fusione di un intero gruppo sociale sotto un'unica direzione ritenuta sola capace di risolvere il problema dominante esistenziale e allontanare un pericolo mortale. Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere disparati, ma in cui prevale l'immaturità delle forze progressive) che nessun gruppo, né quello conservativo né quello progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone (cfr Il 18 brumaio di Luigi Napoleone).
Questo ordine di fenomeni è connesso a una delle quistioni più importanti che riguardano il partito politico, e cioè alla capacità del partito di reagire contro lo spirito di consuetudine, contro le tendenze a mummificarsi e a diventare anacronistico. I partiti nascondo e si costituiscono in organizzazione per dirigere la situazione in momenti storicamente vitali per le loro classi; ma non sempre essi sanno adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche, non sempre sanno svilupparsi secondo che si sviluppano i rapporti complessivi di forza (e quindi posizione relativa delle loro classi) nel paese determinato o nel campo internazionale. Nell'analizzare questi sviluppi dei partiti occorre distinguere: il gruppo sociale; la massa di partito; la burocrazia e lo stato maggiore del partito. La burocrazia è la forza consuetudinaria e conservatrice più pericolosa; se essa finisce col costituire un corpo solidale, che sta a sé e si sente indipendente dalla massa, il partito finisce col diventare anacronistico, e nei momenti di crisi acuta viene svuotato del suo contenuto sociale e rimane come campato in aria. [...]

Paragrafo 23 Quaderno 13 [Quaderni del Carcere, Antonio Gramsci]

giovedì 22 dicembre 2011

[NYT] The King George


A seguire la traduzione di un editoriale del New York Times che parla di Giorgio Napolitano. La lettura di tale articolo è utile per comprendere la visione che ha uno dei più importanti quotidiani mondiali del nostro Presidente della Repubblica e più in generale della situazione della politica italiana

mercoledì 21 dicembre 2011

[WSJ] La disoccupazione dei neolaureati cinesi


Il problema dei giovani laureati che si trovano fuori dal mondo del lavoro non è una problematica solamente italiana. Ne fanno le spese anche i giovani cinesi ed americani come spiegato da una giornalista del Wall Street Journal. In particolare la giornalista nel suo articolo ci spiega a grandissime linee quali sono le idee del governo cinese e la reazione dell'opinione pubblica del paese asiatico.
Di seguito potete trovare la traduzione dell'articolo. L'articolo originale lo trovate qui.

La Cina cancella le specializzazioni universitarie che non danno lavoro

Come per gli Stati Uniti, la Cina sta cercando di affrontare un problema demografico recentemente emerso: la generazione di laureati senza lavoro. La Cina ha comunque già una soluzione soluzione a questo problema. Soluzione che in molti altri paesi, in particolare occidentali, porrebbe quantomeno diversi interrogativi.
Come riferito dall'agenzia di stampa governativa Xinhua, il Ministro dell'educazione Cinese ha annunciato questa settimana un piano attraverso il quale sopprimere gradualmente quei corsi di specializzazione universitaria (majors) che producono laureati senza un reale sbocco lavorativo. Il governo darà avvio ad una serie di valutazioni circa i corsi di specializzazione analizzando gli indici di inserimento nel mondo del lavoro, e ridurrà o taglierà quei corsi che non soddisferanno i requisiti richiesti, tra cui avere una percentuale di laureati attivi nel mondo del lavoro superiore al 60%.
L'iniziativa ha lo scopo di risolvere il problema della gran massa di laureati cinesi che nel 2010, secondo i dati del censimento cinese, risultano 8930 ogni 100000 abitanti con una crescita del rapporto pari al 150% rispetto al 2000. L'aumento di laureati, in altri casi un pregio per il paese, ha contribuito alla sovrabbondanza di lavoratori in possesso di una serie di competenze che non corrispondono però con le richieste e le necessità del mercato dell'export che è il mercato trainante dell'economia cinese.
Tuttavia la decisione del governo di frenare i corsi di specializzazione sta incontrando diverse resistenze. Come riportato in un reportage del China Daily molti professori universitari sono scontenti del provvedimento, che porterà ad una diminuzione di una serie di talenti fondamentali in una serie di campi, come la biologia, che sono fondamentali per un paese che punta a diventare il leader mondiale nei campi scientifici e tecnologici ma che in questo momento non godono di una forte domanda di laureati da parte del mercato del lavoro.
Un'altra critica alla manovra governativa, seppur con diversa motivazione, viene espressa in un editoriale del Beijing News. Nell'editoriale viene fatto presente che queste valutazioni incentivano le false dichiarazioni circa i tassi di occupazione da parte delle università che sono alla ricerca di una maggiore autonomia nella formazione di studenti più qualificati e con percorsi di studio diversificati.
I dati ufficiali infatti mostrano come il numero di laureati cinesi senza lavoro è in diminuzione. Secondo il Ministero dell'Istruzione nel 2010 il 72% dei neolaureati ha trovato un lavoro, mentre nel 2009 erano il 68%.
Nessuno dei rapporti specifica però quale saranno le specializzazione che verranno tagliate con le nuove regole, ma ci sono già alcune indicazioni che mostrano come diverse università avrebbero già iniziato a prendere provvedimenti che porteranno ad una riduzione dei corsi non richiesti dal mercato del lavoro. Sempre secondo il reportage del China Daily all'Università di Shenyang il corso di russo ha visto diminuiti il proprio numero di posti a 25 rispetto ai 50 degli anni scorsi.
Mentre il paese continua a spingere per la crescita delle proprie industrie e delle proprie tecnologie l'educazione è diventato un tema molto caldo in Cina. Per vincere questa sfida, secondo il governo, il paese deve produrre più innovazione. Le forti restrizioni in materia di istruzione sono viste come la principale causa della mancanza di creatività nella società cinese e della fuga dei molti studenti che hanno scelto di andare all'estero per proseguire i propri studi.
I cinesi hanno messo in dubbio che futuri Steve Jobs – fondatore della Apple – possano crescere all'interno di un sistema educativo che tende ad omologare verso il basso tutti gli studenti annullando le eccellenze.
Per questo motivo molti degli studenti cinesi, che dispongono dei fondi sufficienti, hanno deciso di andare a studiare presso le università statunitensi che sono conosciute per aver sfornato laureati diventati poi innovatori di livello mondiale. L'anno scorso 128 mila studenti cinesi si sono trasferiti negli Stati Uniti facendo cosi della Cina il paese con il più alto numero di studenti nelle università americane secondo quanto riportato dall'Institue of International Education nel suo rapporto del 2010.
Ma gli Stati Uniti devono sforzarsi di occuparsi della propria generazione di laureati disoccupati, il sistema di istruzione americano è anch'esso messo in discussione e molti studenti dei college stanno ripensando al valore della propria specializzazione.
Che cosa succederebbe se il governo Statunitense decidesse di adottare l'approccio cinese? Secondo i dati più recenti del censimento statunitense, tra le prime specializzazioni troviamo: psicologia, storia statunitense e tecnologie militari.

Qualche dato sparso sull'università

- Per il 2012 ci sarà un leggero aumento dell'FFO pari a circa 300 milioni di euro pari ad un aumento percentuale di 0.09%.

- Nel 2011 l'FFO complessivo è stato tagliato dell'1%.

- Il taglio dell'FFO per l'Università di Brescia per l'anno 2011 è stato pari a -0.1%.

- L'UniBS occupa la terza posizione tra le università italiane per la minor diminuzione del proprio FFO (prima Trento con +0.6%).

- L'UniBS occupa la quindicesima posizione su base premiale.

- Nel prossimo anno verranno stanziati 120 milioni per nuovi ricercatori e 93 milioni per nuovi professori associati.

- Aumento di 141 milioni dei fondi per l'edilizia residenziale universitaria (per un totale di 171 milioni).

- Rinegoziazione del tasso di interesse tra le Università e la Cassa depositi e prestiti (da 3 a 1.8)

- L'FFO incide con una percentuale tra l'80 e l'82% delle entrate totali dell'Ateneo bresciano.

- Delle entrate dell'Ateneo il 34% viene utilizzato per la didattica il 66% per la ricerca.

- Negli ultimi tre anni, a causa dei tagli del Governo Berlusconi, l'UniBs è passata da un bilancio in attivo di qualche milione di euro a bilanci in passivo [-7.4 (2010), -8.8 (2011), -6.9 (2012)].

- Il rapporto tra contribuzione studentesca ed FFO cala dal 24.6% al 23.1%. Ciò è causato da un minor flusso di contribuzione studentesca a parità di studenti. Ulteriore dimostrazione della crisi che colpisce le famiglie.

- Le tasse studentesche (diverse dalla contribuzione è stabilità dal Ministero) sono aumentate di 2.8 euro per ogni studente con D.M. del 22 Febbraio 2011. Ciò porterà circa 39mila euro in più nelle casse della Statale.

- Il 12% dell'FFO è di natura premiale.

- Il 97.7% dell'FFO per l'Università di Brescia viene usato per le spese del personale.

- Per l'ICT e la comunicazione sono stati stanziati, per il prossimo triennio, 2.3 milioni di euro.

- I fondi per le Collaborazioni studentesche (150 ore) sono stati tagliati del 30%. Ciò a causa della scarsa risposta degli studenti a questo tipo di sostegno economico.

- La Regione Lombardia ha taglia 874.243,52 euro su circa 3 milioni per le borse di studio regionali.

domenica 18 dicembre 2011

Cosa dev'essere un giornale

Su proposta del Circolo del Franciacorta-Sebino, e seguendo il loro esempio, i Giovani Democratici bresciani si stanno, in questi ultimi mesi, dotando anch'essi di un proprio giornale.
Dico volutamente giornale, anziché giornalino, perché penso che già dal nome un progetto di questa ampiezza meriti rispetto e considerazione fin dal proprio nome.
Scrivere, e pubblicare, un giornale non è un qualcosa che si può fare a cuor leggero, esso richiederà l'impegno da parte di tutti, perché esso è il primo mezzo con cui si fa informazione e politica. La politica è informazione e l'informazione è politica. L'obbiettivo che i Gd bresciani devono porsi attraverso il loro foglio non è solo fare propaganda, ma raccontare i fatti e contestualmente portare la propria analisi e la propria visione di essi e conseguentemente imporre - a livello culturale - queste riflessioni non solo ai propri coetanei ma anche e soprattutto al Partito Democratico. La creazione e la pubblicazione - con vari formati - viene ad assolvere quel ruolo di pungolo che i giovani hanno nei confronti dei grandi.

Qualcuno adesso potrebbe ribattermi che nell'era di internet e delle televisioni i giornali sono superati. Un giornale non è solamente la carta con cui viene stampato, sono i temi che vengono trattati, i toni con cui vengono trattati. Il giornale è l'opposto della superficialità della comunicazione moderna (come dice anche Reichlin).
Non è un caso che sempre più gente, anche nell'era di internet, vada alla ricerca di giornali online sui quali informarsi e costruire una propria idea.Con internet siamo tornati alla ricerca dell'informazione di qualità. Paradossalmente dopo 20 anni di comunicazione visiva siamo tornati alla comunicazione scritta, seppur su altri supporti.
Internet quindi non è l'avversario del giornale, anzi al contrario gli da nuova vita e apre nuovi spazi anche a coloro che, come i Giovani Democratici bresciani, non possiedono i mezzi tecnici e finanziari dei grandi gruppi editoriali.
Per descrivere il mio concetto di giornale, meglio di ogni mia parola possono le parole di Alfredo Reichlin che per commentare la messa online di tutto l'archivio storico dell'Unità scrive un editoriale spiegando cosa fosse L'Unità e più in generale cosa dovrebbe essere, o aspirare ad essere, un qualunque giornale che punti ad essere tale.

Prima di lasciarvi alla lettura dell'articolo ci tengo a dare un solo consiglio: colui che si accinge a leggere le parole di Reichlin dovrebbe spogliarsi dalle proprie possibili pregiudiziali nei confronti di un giornale e di un'esperienza politica. Le parole di Reichlin vanno analizzare aldilà del discorso incentrato su L'Unità e portare su un piano più alto

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Il Corriere degli operai 

di Alfredo Reichlin da L'Unità del 2 Ottobre 2011


Mi chiedono di commentare questa impresa davvero notevole: la messa a disposizione di tutta quell’immensa mole di fatti, idee, scritti, narrazioni e commenti che rappresentano la collezione dell’Unità.

L’Unità è stata gran parte della mia vita. Ne divenni direttore a trent’anni, alla vigilia del famoso 1956 (il rapporto segreto e il crollo del mito sovietico). Ero entrato nella sua redazione poco dopo la Liberazione di Roma e avevo fatto tutti i mestieri, dalla cronaca nera ai resoconti parlamentari. Dopo sei anni e in conseguenza di un serio dissenso politico sul rapporto tra il Pci e il centro-sinistra passai a fare altro. E poi, in un’altra stagione politica (1976, Berlinguer, il compromesso storico), fui chiamato nuovamente a dirigerla. Per altri sei anni. Una vita. Vorrei evitare nostalgie e commemorazioni. Sono sempre più assillato dalla consapevolezza di questa vera e propria mutazione del mondo. So anch’io che il mondo è sempre cambiato. Ma adesso si tratta della fine della sua occidentalizzazione. Sei secoli. Si tratta dell’Europa, il luogo dove si è inventato tutto e il contrario di tutto; lo Stato e la rivoluzione, la libertà e il fascismo, la democrazia, la destra e la sinistra. È l’avvento non solo di nuove potenze ma di una nuova identità. Quindi di un diverso pensare se stessi, quindi la realtà.

Ho dei nipoti, giovani, adolescenti. Sono sicuro che mi tengono in buona considerazione. Ma, se vogliamo dire la verità, io mi accorgo che essi, al fondo, non sono molto interessati alla mia storia. Certo non sono indifferenti ma ciò che io leggo in loro è il travaglio e perfino la sofferenza di una nuova generazione che è alla ricerca di nuovi significati e che pone – senza riuscire nemmeno a formularle - nuove domande sul futuro. In sostanza domande di valori ai quali il narcisismo e il politicismo del ceto politico non è in grado di rispondere.

Stiamo attenti: anche questo alimenta l’antipolitica. E la sinistra non è innocente. Dunque, questo è il mio commento alla nuova lettura che si può fare dell’Unità. C’è nella storia di questo giornale qualcosa che risponda alle domande dei miei nipoti? Lasciamo stare le apologie. Ho vissuto la vita quotidiana di questo giornale e so quanto siamo stati anche faziosi e settari. Conosco la fretta con cui si lavorava e quindi gli errori e le sciatteria. Ma l’Unità non fu soltanto l’organo di un partito e che partito: il partito comunista. Fu una grande invenzione. È esattamente per questo che essa incise sulla storia dell’Italia repubblicana. Perché fu una cosa molto pensata di cui non esisteva il paragone. Non solo in Italia. Fu una costruzione complessa, ispirata fondamentalmente da Palmiro Togliatti e molto discussa in un gruppo di giovani e di intellettuali di cui anch’io ho fatto parte. L’idea di Togliatti era molto chiara: il nostro modello, diceva, non è il vecchio Avanti delle vignette anticapitalistiche di Scalarini, né tanto meno la Pravda ma il Corriere della Sera. Vogliamo fare della classe operaia la nuova classe dirigente? Allora dobbiamo dare ad essa un grande giornale capace di battersi con i giornali della borghesia sul terreno della informazione sui fatti reali del mondo, che dica la sua su tutta la vita sociale, compreso lo sport e lo spettacolo. Questa fu la nostra missione. Non fu solo quella di trasmettere le direttive del partito ma di dare battaglia sul terreno dell’egemonia (egemonia intesa in senso gramsciano ndr). E fare ciò cominciando dalla capacità di competere con gli altri nel definire l’agenda politica e ideale del Paese. E così uscire dalla subalternità. Qualcosa di più profondo dell’essere lo strumento al servizio del popolo per farsi giustizia (mi minacci? io lo racconto all’Unità). E tutto questo non a parole ma facendo un giornale che era un giornale, un giornale, e un giornale. Un grande giornale che la domenica vendeva un milione di copie.

La domanda è: chi detta oggi l’agenda del Paese? Certo non noi, ridotti come siamo quasi al silenzio. A me pare che qui sta l’attualità del racconto che voi mi costringete a fare ai miei nipoti. I quali vivono in un Paese dove gran parte del ceto politico (non tutto per fortuna) ha ceduto il comando non solo all’oligarchia finanziaria ma al giornalismo più straccione che lusinga il suo narcisismo invitandolo a schiamazzare nei talk show televisivi e accettando perfino che la trasmissione venga aperta da un comico che li sbeffeggia (tra le risate di tutti). A questo ci siamo ridotti? Certo, la sinistra non possiede più l’alto linguaggio etico-politico, di condanna civile del cardinal Bagnasco. La sinistra – come sappiamo e tutti diciamo - deve rinnovarsi in tante cose. Secondo me, tra queste, c’è una nuova riflessione che deve fare sull’importanza dei giornali. Perché i dirigenti non scrivono gli editoriali? Come pensano di far camminare le idee se ne hanno? Idee non le solite battute di una intervista televisiva. È vero, è in tv che si forma quella cosa fondamentale che sono i costumi i modelli di pensare. Ma a monte ci sono pur sempre le idee, le grandi decisioni. Dopotutto la cultura dominante è quella della classe dominante, ed è a essa che il sistema dei media si adegua. Concludo. Alla fin fine che cosa chiedono i miei nipoti se non ridare senso e significato alle loro esistenze, se non il bisogno di tornare ad essere padroni delle proprie vite? È ciò che cercano. Sappiano allora che questo fu il grande messaggio dell’Unità. Non fummo un grande giornale popolare e di massa perché raccontavamo balle o pubblicavamo storie di puttanieri. Ma nemmeno lo fummo solo perché denunciavamo le ingiustizie. Lo fummo perché ci costituimmo come strumento di una costruzione democratica, cioè del protagonismo (per una volta tanto nella storia italiana) delle masse.
Spero si capisca l’orgoglio e la piena dei sentimenti di chi faceva quel giornale e vedeva l’operaio del cantiere di Taranto (l’ho conosciuto) che rischiava il licenziamento perché si ostinava a varcare i cancelli della fabbrica, all’alba con in tasca l’Unità. C’è una grande discussione sulla “casta” e sul modo di fare politica. Non mi piace. Io ricordo che quasi ogni sera un uomo come Palmiro Togliatti prima di andare a casa passava dalla redazione in via IV novembre. Parlava con noi e si faceva portare una birra prima di mettersi a scrivere un commento con l’inchiostro verde. Vedi, mi diceva, sta attento al linguaggio: quello della politica deve parlare ai cuori e alle menti e non imitare il linguaggio povero e rissoso dei giornali. Leggi Stendhal. Purtroppo ho perso i bigliettini che mi mandava ogni giorno per commentare un film o la cronaca del Giro d’Italia. Arrivavano a sera anche gli intellettuali che scrivevano la “terza pagina” e ponevano al povero Ingrao problemi impossibili. Pietro commentava in prima pagina il passaggio dal neo-realismo alla commedia all’italiana. Si lavorava come matti e l’ultimo camioncino portava a casa il direttore verso le due.

venerdì 16 dicembre 2011

Ma Riformisti è davvero la parola giusta?

Dopo la serata di ieri, a cui accosto l'incontro dei Cattolici del Pd di qualche settimana fa, possiamo intravedere, o tentare di farlo, quali sono le strade che sta cercando di imboccare un Partito Democratico che finora ha faticato a trovare una propria rotta più che un timoniere in grado di tenerla.

Per trovare una rotta ci si affida, forse inutilmente, a parole che hanno un forte peso storico, più che politico almeno in Italia. Succede cosi che il senso dell'incontro di ieri più che dalla parola Riformismo, può essere sintetizzato da una frase dell'onorevole Orlando: "la crisi del berlusconismo sta permettendo una nuova suddivisione interna del Pd che non ha più come riferimento le persone, ma bensì gli interessi di fondo e le idee".

Infatti la parola Riformismo è stata ieri più un pretesto per avviare un percorso di riflessione politica più che il vero leitmotiv della serata, non risultando completamente adatta a racchiudere in se tutte le riflessioni a cui si è assistito.
Il perché di ciò è apparso palese dagli interventi, per chi fosse presente, ed è stato poi espresso chiaramente dal solito Orlando che nella sua digressione storica ha fatto ben comprendere che la parola Riformista, se non riempita di contenuti specifici, ha uno scarso valore politico e tematico.
Lo stesso Maurizio Martina ha aggettivato la parola riformista come timida nonostante poi abbia riconosciuto la validità degli interventi che lo hanno preceduto.
E cosi, nonostante vada riconosciuto l'impegno con cui si è cercato di dare un significato specifico al termine, altre due parole hanno conquistato la ribalta del palcoscenico finendo sulle labbra di tutti i relatori: Europa ed uguaglianza.

Partiamo dalla seconda. E' la parola che più è stata accostata al termine riformista e quella che più ha contestualizzato lo stesso durante tutta la serata.
Per usare le parole di Scalvenzi, l'uguaglianza deve partire da una "meritocrazia non egoista, ma attenta anche agli ultimi" e per fare ciò la politica [riformista] "non può essere la crocerossina del mercato, ma comandarlo e riformarlo" (Michele Orlando). Si impone cosi, da parte di tutti, una visione di un mercato che deve essere posto sotto il controllo della politica - ruolo al quale la politica per il momento ha abdicato non solo in Italia - con una ricerca di un rapporto tra libertà e regole che si compone nella sfida del salvataggio di un modello sociale e al contempo nella riforma del sistema di sviluppo con l'obbiettivo ultimo di modernizzare il paese riducendo le disuguaglianze.
Arriviamo cosi alla ricerca di un nuovo modello di uguaglianza, la quale si deve sviluppare attraverso un riformismo tipico dei socialisti tedeschi e francesi piuttosto che basarsi sul riformismo liberale di blairiana memoria.

Arriviamo cosi all'altra parola significativa della serata: l'Europa. Per tutti i relatori ogni iniziativa in senso riformista non può prescindere dal palcoscenico europeo. Si è palesata la necessità, come già avevo scritto, di un impegno sul fronte delle istituzioni europee, perché solamente attraverso, e dentro, di esse si potrà portare avanti  una battaglia politica che vede i suoi principali avversari muoversi su di un terreno sovranazionale.
E sul piano europeo c'è un'ulteriore punto di avvicinamento con le posizioni socialiste riformiste, come sul tema dell'uguaglianza. Il solo PSE è stato riconosciuto come punto di riferimento in campo europeo per la politica riformista italiana. Su questo campo l'onorevole Orlando si è lanciato anche oltre chiedendo una riflessione, durante il passaggio sulla politica del Pd, sulla possibilità di una politica riformista facendo presente come oggi nel Partito Democratico siano presenti posizioni politiche che in Europa sono locate dal centrodestra in là.

In conclusione la serata è stata piacevole con alcuni interventi di davvero alto livello, tra cui spicca quello dell'onorevole Orlando, e sotto certi punti di vista è stata una forte risposta politica a diverse posizioni uscite dall'incontro dei Cattolici del Pd all'Artigianelli.
Sotto altri aspetti, anche soprattutto per il grande risalto politico dato da tutti all'incontro, mi sarei aspettato una minor timidezza e un maggior coraggio - altra parola ricorrente - soprattutto da parte degli esponenti bresciani nel dettare, con parole d'ordine forti, l'inizio di un percorso politico che ad oggi rappresenta il futuro di quella parte consistente del Partito Democratico bresciano che guarda a sinistra.

mercoledì 14 dicembre 2011

Dal Canada all'Italia. Una strada per l'integrazione

Gli ultimi avvenimenti di cronaca hanno rinfocolato il dibattito, mai spento, tra i fautori di un multiculturalismo e tra coloro che invece pensano che un'integrazione tra diverse culture non sia possibile e che l'immigrazione sia la prima causa del tasso di criminalità all'interno della società italiana, in particolare, ed occidentale in generale. 

Cosi se per caso qualcuno accenna ad un'area metropolitana di 6 milioni e mezzo di abitanti, aggiungendo inoltre che è la seconda città al mondo per numero di residenti nati all'estero (46%), nella mente dell'italiano medio la prima cosa che scatta è il pensiero sull'alto indice di criminalità presente in zona.

Eppure numeri cosi grandi sono i caratteri peculiari di una realtà in cui il multiculturalismo non solo è una realtà consolidata, ma fa di questa città il motore economico, culturale e turistico dell'intero paese.
Non sto evidentemente portando l'esempio di alcuna città italiana. I numeri sopra enunciati sono quelli di Toronto, città modello del multiculturalismo mondiale, capoluogo della provincia dell'Ontario e prima città per numero di abitanti del Canada.

Non è un caso se nel 2007 il famoso Financial Times nella sua versione europea posizionava la città canadese al secondo posto nella lista delle grandi metropoli del futuro del Nord America. I punti di forza individuati erano: basso costo delle case, un contenuto tasso di criminalita', un sistema sanitario e dell'istruzione che funzionano e un alto tasso di occupazione. Sempre la stessa rivista nella classifica delle piccole città (inferiori ai 500mila abitanti) posiziona Windsor al primo posto e colloca nella top ten altre quattro città canadesi.

Pongo l'accento sopratutto sul contenuto tasso di criminalità. Infatti Toronto, nonostante sia la seconda città del mondo per immigrazione - dopo Miami -, possiede l'area metropolitana con il più basso indice di criminalità del nord america, e la provincia dell'Ontario - è la più popolosa del Canada e la maggiormente interessata dal fenomeno dell'immigrazione - ha un tasso di criminalità ben al di sotto della media nazionale.

Possiamo quindi prendere ad esempio questa realtà per affermare con tutta sicurezza che il problema non è dettato dal fenomeno migratorio ma dalle condizioni economiche e dalle politiche, generali e di integrazione, dello stato che accoglie coloro che migrano. Toronto, città dalla forte economia e dall'alto livello culturale, ha fatto si che il multiculturalismo non fosse un problema ma un proprio punto di forza.
Cosi all'interno della metropoli abbiamo un intreccio di oltre 100 culture diverse che rendono Toronto una città aperta e dinamica oltreché un polo di grande interesse turistico grazie a quel sovrapporsi di stili e mentalità che danno alla città canadese non solo uno skyline da città moderna ma anche angoli suggestivi e turistici ed un grande impianto museale e culturale che ne fanno la quarta capitale mondiale della cultura.

Come detto però per far ciò è necessaria anche una politica di integrazione ben pianificata ed attenta alle esigenze dei vecchi come dei nuovi cittadini.
Giusto per confrontare le diverse realtà, mentre in Italia non abbiamo presso le forze dell'ordine un corpo di mediatori culturali ben formati per consentire un serio dialogo tra l'istituzione e la popolazione immigrata, il centralino del 911 (numero di emergenza di Toronto) è attrezzato per rispondere in oltre 150 lingue alle richieste di aiuto.
Quello appena fatto è solo un esempio, anche se a mio parere significativo. Per una panoramica più approfondita, sarebbe troppo lungo pubblicarla qui, a questo link potete leggere l'analisi di M. Lombardi (pag. 27 "Percorsi di integrazione degli immigrati e politiche attive del lavoro" ed. Franco Angeli) che ben illustra le politiche canadesi atte favorire l'integrazione sociale e culturale dei migranti. Un esempio di politiche da attuare anche nel belpaese.

In un mondo sempre più interconnesso e sempre più interessato dal multiculturalismo e dal fenomeno delle migrazioni, fenomeno mai scomparso, l'Italia non può sottrarsi dal mettere in campo politiche di integrazione. In caso contrario non potrà che evolvere verso un modello di società chiusa al resto del mondo e decretare cosi la sua sconfitta economica, oltreché culturale, con buona pace delle camice nere e verdi che con la loro subcultura razzista e ignorante difendono un'identità, che se non inesistente, quantomeno anacronistica.

domenica 11 dicembre 2011

Che cosa possono buttare a mare? [L'Italia sono anch'io]

Era il 16 Dicembre del 1773 e alcuni coloni americani appartenenti ai Sons of Liberty intonando lo slogan "No taxation without representation" gettavano a mare 342 ceste contenenti 45 tonnellate di tè.

Venendo alla situazione italiana di oggi, con milioni di immigrati regolari che lavorano - mandando cosi avanti la nostra economia - e che pagano le tasse sostenendo il nostro welfare senza aver alcun diritto politico, mi viene da domandarmi cosa potrebbero buttare a mare nel 2011.
342 ceste sono tante da riempire, ma penso che non avrebbero grandi difficoltà nel trovare qualcosa da metterci dentro. Tanto per iniziare escort, nani e qualche camicia verde, poi il resto vien da sé.

sabato 10 dicembre 2011

Dei post precedenti

Vorrei condividere alcune riflessioni che ho avuto modo di fare sfogliando oggi alcuni quotidiani locali.

Partiamo dal post "E noi siamo pronti?(Dell'ICI e del PD)" e quindi trattiamo dell'ICI in relazione alla Chiesa Cattolica.
Sulle edizioni odierne si sono susseguite interviste a vari esponenti politici di tutte le forze partitiche nelle quali ognuno rendeva conto del proprio pensiero e posizione.
Leggendo queste interviste abbiamo un principale dato di fatto: pochi di loro sanno di quello che stanno parlando. Molti dicono che la Chiesa, e le altre onlus, dovrebbero pagare l'ICI sugli immobili con scopi commerciali, mentre vanno tenute le esenzioni per gli immobili con scopi sociali o di culto. Ma il punto non è questo. Come detto nel precedente post la questione dell'esenzione dell'ICI grava su quegli immobili con doppia finalità, sia sociale sia commerciale. Quasi nessuno ha risposto nel merito della questione, quasi tutti si sono limitati a dire che gli immobili con finalità commerciale vanno tassati, quelli con finalità di culto o sociali vanno esentati.

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La seconda riflessione riguarda invece la manifestazione sindacale unitaria per la giornata di lunedì. In un precedente post motivavo la mia contrarietà ad uno sciopero generale unitario delle tre sigle sindacali.
Il mio desiderio è stato esaudito almeno a Brescia e in altre realtà locali. Infatti dai giornali apprendo che nella zona bresciana non si è trovato l'accordo per una manifestazione unitaria perché la UIL e la CISL chiedevano alla CGIL di far venire meno la manifestazione contro l'estensione del contratto stile Pomigliano a tutte le fabbriche FIAT, compresa quindi anche l'Iveco presente con uno stabilimento in città.
Le interviste pubblicate sul BresciaOggi ci danno l'ennesima dimostrazione di come CISL e UIL non siano interessate ad una vera critica sindacale delle problematiche del mondo del lavoro italiano, ma cercano unicamente un riconoscimento formale da parte del Governo Monti.

venerdì 9 dicembre 2011

E noi siamo pronti? (Dell'ICI e del PD)

Negli ultimi giorni a seguito della manovra economica imposta dal Governo Monti, a causa della sua, secondo molti, iniquità, si è nuovamente sollevato il polverone sul mancato pagamento dell'ICI, da parte della Chiesa Cattolica, sugli immobili parzialmente commerciali - secondo il decreto legge n. 223/2006 l'esenzione per gli immobili di proprietà ecclesiastica «si intende applicabile alle attività che non abbiano esclusivamente natura commerciale».

Fino al suddetto decreto legge il pagamento dell'ICI - oltreché dal concordato Stato-Chiesa - veniva regolato dal Decreto Legislativo 30 Dicembre 1992 n.504 che richiamando il D.P.R. 22 Dicembre 1986 n. 917 sanciva che erano esentati dal pagamento dell'ICI gli immobili degli «enti pubblici e privati diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali» che erano «destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive».
Si comprende bene che rientrano in questa definizione solo gli immobili della Chiesa Cattolica, cosi come di altre confessioni, adibite esclusivamente a fini spirituali ed assistenziali. 

Nel frattempo la Cassazione (sentenza n. 4645 dell’8 marzo 2004) si è espressa confermando l'obbligatorietà da parte della Chiesa Cattolica di versare l'ICI anche per gli immobili parzialmente adibiti ad attività commerciale. Nonostante ciò il Governo Berlusconi nella finanziaria del 2006 esenta completamente gli immobili di proprietà ecclesiastica, anche con scopi commerciali, dal pagamento dell'ICI. 
Poco dopo cambia il governo e nell'estate del 2006 l'allora Governo Prodi stila il decreto legge n.223/2006 che non torna alla regolamentazione del 1992, ma aggiunge la frase sopraddetta che esenta dal pagamento dell'ICI anche le strutture con fini parzialmente commerciali. Se ciò sia stato fatto in buona o in  malafede questo non ci è dato saperlo, ma fa quanto meno pensare su quale sia oggi l'alternativa nel campo del centrosinistra ad un governo Berlusconiano almeno nel campo dei rapporti con la Chiesa Cattolica. Il Decreto Legge porta in calce le firme di: Prodi, Padoa Schioppa, Bersani in qualità di responsabili dei rispettivi incarichi dell'epoca.

Una decisione certo non felice visto che a seguito della denuncia dei Radicali la Commissione Europea ha deciso di avviare un'inchiesta per sospetti aiuti di Stato alla Chiesa Cattolica nei confronti dell'Italia. 
In particolare i Radicali e successivamente la Commissione Europea si è concentrata su quegli immobili che nell'arco di un anno assumono in alternativa o contemporaneamente sia l'aspetto commerciale che l'aspetto spirituale e/o assistenziale.


È ora utile, per proseguire nel discorso, capire quali siano gli importi di cui stiamo parlando anche considerando che la Chiesa Cattolica, anche attraverso molti enti ad essa collegati, è oggi proprietaria di circa il 22-25% dei valore immobiliare sul suolo italiano. Molti giornalisti ed associazioni si sono occupati della tematica e i dati a disposizione cercando in internet sono dei più vari. La stima che sembra più attendibile è quella che fa la UAAR che quantifica il costo per lo Stato Italiano in mancato pagamento in circa mezzo miliardo l'anno. Una cifra che si posiziona nel mezzo tra quella stimata dall'ANCI nel 2005 (300 milioni di euro) e quella stimata da alcuni libri-inchiesta che stimano la perdita in un miliardo l'anno.

Una cifra comunque considerevole - la città di Roma perde secondo l'ANCI qualcosa come 25-26 milioni l'anno - che in un momento di crisi economica e di profondi tagli strutturali permetterebbe alle casse comunali di tirare un po' il fiato con una buona iniezione di liquidità. Proprio qui sta il punto. L'ICI è una tassa comunale e sostituisce dal 1992 molti dei trasferimenti statali ai comuni. Ma essendo comunale, in mancanza di regole certe è fortemente soggettiva sopratutto se la gestione dei comuni è influenzata da lobby od interessi di enti ed associazioni. In questo senso è emblematica la dichiarazione del ministro Riccardi: «Credo che le attività di culto, culturali della Chiesa siano una ricchezza per il Paese e quindi l'Ici-l'Imu non va pagata. Per quelle che possono essere le attività commerciali gestite dalla Chiesa, dai religiosi, dalle associazioni cattoliche vigilino i Comuni o chi è preposto a questo per vedere se l'imposta viene pagata e intervenga. Inutile fare una grande battaglia. Si tirino fuori i casi, si valuti caso per caso e si intervenga: se c'è stata mala fede - ha concluso Riccardi - si prendano le misure necessarie».
Tralasciando la facile polemica sul fatto che sono importanti tutte le attività di culto e non solo quelle della Chiesa Cattolica e tralasciando il fatto che la polemica è nata su quelle attività non esclusivamente di culto o di assistenza, nelle parole del Ministro troviamo un profondo senso di realismo. 

Siamo cosi sicuri che in un'Italia ancora cosi fortemente influenzata e sottoposta alle gerarchie ecclesiastiche i comuni abbiano la forza, o l'interesse, a far pagare l'ICI alle strutture della Chiesa Cattolica che abbiano delle finalità parzialmente commerciali? Se la malafede è fatta dal controllore ancor prima che dal controllato non è forse il caso che intervenga lo Stato centrale per normare una situazione denunciata anche dalla Corte di Cassazione? E infine, è pronto il Partito Democratico, a Roma e negli enti locali a farsi portavoce di questa istanza? O ci limiteremo a bollare come demagogica l'ennesima proposta dell'IdV per mantenere uno status quo utile a tutti tranne che al paese?

giovedì 8 dicembre 2011

Crumiri e sindacati tutti insieme amichevolmente

«Al momento non ci sono le condizioni per una manifestazione unitaria» lapidarie le parole di Damiano Galletti, segretario generale della CGIL bresciana.
Il riferimento, pur essendo alla manifestazione della FIOM cittadina indetta per la giornata di lunedì 12 Dicembre, apre un serio interrogativo sulle tre ore di sciopero indette per lunedì da tutte e tre le sigle unitarie.

Come me, molti altri iscritti o simpatizzanti CGIL si stanno domandando il senso di indire uno sciopero insieme alle due sigle che fino all'ultimo sono state dalla parte del Governo Berlusconi - come i topi hanno abbandonato la nave quando stava affondando - ed ancora oggi appoggiano Marchionne e il suo progetto di fabbrica Italia - in parole povere chiudere tutto.
Prese di posizione che fanno di conseguenza venir meno la credibilità di uno sciopero indetto dalle tre sigle unitariamente. Ci si domanda qual è il senso di uno sciopero di due ore, come all'inizio volevano CISL e UIL, se non quello di mostrare i muscoli al governo per essere presi nuovamente in considerazione, come dal Governo Berlusconi, non tanto sulle tematiche, ma solamente per avere un'investitura politica e personale davanti al paese e nei tavoli governativi. Come traspare dalle stesse parole dei due segretari nazionali, Angeletti e Bonanni, lo sciopero non è causato tanto da quanto proposto all'interno del pacchetto lacrime e sangue del Governo Monti, ma da come questo è stato proposto: senza aver prima sentito su tutti i provvedimenti il parere dei due sindacati filo governativi. In altre parole non è il provvedimento in se che ha fatto male alla CISL e alla UIL, ma è la figura da idioti che gli ha fatto fare nei confronti dei propri iscritti.

Per rifarsi un'immagine Angeletti e Bonanni non potevano che indire uno sciopero farsa per pesare la loro forza nei confronti del governo. Un peso che verrà sicuramente aumentato dall'adesione della CGIL nazionale. In tal modo il sindacato guidato dalla Camusso non farà altro che legittimare dei sindacati di crumiri consentendogli di rientrare con forza al tavolo governativo e di rompere, con molta nonchalance, l'unità sindacale il giorno stesso della chiamata del Prof. Monti.

Personalmente, ed invito tutti gli iscritti ed i simpatizzanti della CGIL a farlo, lunedì non sarò in piazza a manifestare.