Su proposta del Circolo del Franciacorta-Sebino, e seguendo il loro esempio, i Giovani Democratici bresciani si stanno, in questi ultimi mesi, dotando anch'essi di un proprio giornale.
Dico volutamente giornale, anziché giornalino, perché penso che già dal nome un progetto di questa ampiezza meriti rispetto e considerazione fin dal proprio nome.
Scrivere, e pubblicare, un giornale non è un qualcosa che si può fare a cuor leggero, esso richiederà l'impegno da parte di tutti, perché esso è il primo mezzo con cui si fa informazione e politica. La politica è informazione e l'informazione è politica. L'obbiettivo che i Gd bresciani devono porsi attraverso il loro
foglio non è solo fare propaganda, ma raccontare i fatti e contestualmente portare la propria analisi e la propria visione di essi e conseguentemente imporre - a livello culturale - queste riflessioni non solo ai propri coetanei ma anche e soprattutto al Partito Democratico. La creazione e la pubblicazione - con vari formati - viene ad assolvere quel ruolo di pungolo che i giovani hanno nei confronti dei grandi.
Qualcuno adesso potrebbe ribattermi che nell'era di internet e delle televisioni i giornali sono superati. Un giornale non è solamente la carta con cui viene stampato, sono i temi che vengono trattati, i toni con cui vengono trattati. Il giornale è l'opposto della superficialità della comunicazione moderna (come dice anche Reichlin).
Non è un caso che sempre più gente, anche nell'era di internet, vada alla ricerca di giornali online sui quali informarsi e costruire una propria idea.Con internet siamo tornati alla ricerca dell'informazione di qualità. Paradossalmente dopo 20 anni di comunicazione visiva siamo tornati alla comunicazione scritta, seppur su altri supporti.
Internet quindi non è l'avversario del giornale, anzi al contrario gli da nuova vita e apre nuovi spazi anche a coloro che, come i Giovani Democratici bresciani, non possiedono i mezzi tecnici e finanziari dei grandi gruppi editoriali.
Per descrivere il mio concetto di giornale, meglio di ogni mia parola possono le parole di Alfredo Reichlin che per commentare la messa online di tutto l'archivio storico dell'Unità scrive un editoriale spiegando cosa fosse L'Unità e più in generale cosa dovrebbe essere, o aspirare ad essere, un qualunque giornale che punti ad essere tale.
Prima di lasciarvi alla lettura dell'articolo ci tengo a dare un solo consiglio: colui che si accinge a leggere le parole di Reichlin dovrebbe spogliarsi dalle proprie possibili pregiudiziali nei confronti di un giornale e di un'esperienza politica. Le parole di Reichlin vanno analizzare aldilà del discorso incentrato su L'Unità e portare su un piano più alto
----------
di Alfredo Reichlin da L'Unità del 2 Ottobre 2011
Mi chiedono di commentare questa impresa davvero notevole: la
messa a disposizione di tutta quell’immensa mole di fatti, idee,
scritti, narrazioni e commenti che rappresentano la collezione
dell’Unità.
L’Unità è stata gran parte della mia vita. Ne divenni direttore a
trent’anni, alla vigilia del famoso 1956 (il rapporto segreto e il
crollo del mito sovietico). Ero entrato nella sua redazione poco dopo la
Liberazione di Roma e avevo fatto tutti i mestieri, dalla cronaca nera
ai resoconti parlamentari. Dopo sei anni e in conseguenza di un serio
dissenso politico sul rapporto tra il Pci e il centro-sinistra passai a
fare altro. E poi, in un’altra stagione politica (1976, Berlinguer, il
compromesso storico), fui chiamato nuovamente a dirigerla. Per altri
sei anni. Una vita. Vorrei evitare nostalgie e commemorazioni. Sono
sempre più assillato dalla consapevolezza di questa vera e propria
mutazione del mondo. So anch’io che il mondo è sempre cambiato. Ma
adesso si tratta della fine della sua occidentalizzazione. Sei secoli.
Si tratta dell’Europa, il luogo dove si è inventato tutto e il contrario
di tutto; lo Stato e la rivoluzione, la libertà e il fascismo, la
democrazia, la destra e la sinistra. È l’avvento non solo di nuove
potenze ma di una nuova identità. Quindi di un diverso pensare se
stessi, quindi la realtà.
Ho dei nipoti, giovani, adolescenti. Sono sicuro che mi tengono in buona
considerazione. Ma, se vogliamo dire la verità, io mi accorgo che essi,
al fondo, non sono molto interessati alla mia storia. Certo non sono
indifferenti ma ciò che io leggo in loro è il travaglio e perfino la
sofferenza di una nuova generazione che è alla ricerca di nuovi
significati e che pone – senza riuscire nemmeno a formularle - nuove
domande sul futuro. In sostanza domande di valori ai quali il narcisismo
e il politicismo del ceto politico non è in grado di rispondere.
Stiamo attenti: anche questo alimenta l’antipolitica. E la sinistra non è
innocente. Dunque, questo è il mio commento alla nuova lettura che si
può fare dell’Unità. C’è nella storia di questo giornale qualcosa che
risponda alle domande dei miei nipoti? Lasciamo stare le apologie. Ho
vissuto la vita quotidiana di questo giornale e so quanto siamo stati
anche faziosi e settari. Conosco la fretta con cui si lavorava e quindi
gli errori e le sciatteria. Ma
l’Unità non fu soltanto l’organo di un
partito e che partito: il partito comunista.
Fu una grande invenzione. È
esattamente per questo che essa incise sulla storia dell’Italia
repubblicana. Perché fu una cosa molto pensata di cui non esisteva il
paragone. Non solo in Italia. Fu una costruzione complessa, ispirata
fondamentalmente da Palmiro Togliatti e molto discussa in un gruppo di
giovani e di intellettuali di cui anch’io ho fatto parte. L’idea di
Togliatti era molto chiara:
il nostro modello, diceva, non è il vecchio
Avanti delle vignette anticapitalistiche di Scalarini, né tanto meno la
Pravda ma il Corriere della Sera. Vogliamo fare della classe operaia la
nuova classe dirigente? Allora dobbiamo dare ad essa
un grande giornale
capace di battersi con i giornali della borghesia sul terreno della
informazione sui fatti reali del mondo
, che dica la sua su tutta la vita
sociale, compreso lo sport e lo spettacolo. Questa fu la nostra
missione.
Non fu solo quella di trasmettere le direttive del partito ma
di dare battaglia sul terreno dell’egemonia (egemonia intesa in senso gramsciano ndr). E fare ciò cominciando
dalla
capacità di competere con gli altri nel definire l’agenda politica
e ideale del Paese. E così uscire dalla subalternità. Qualcosa di più
profondo dell’essere lo strumento al servizio del popolo per farsi
giustizia (mi minacci? io lo racconto all’Unità). E tutto questo non a
parole ma facendo un giornale che era un giornale, un giornale, e un
giornale. Un grande giornale che la domenica vendeva un milione di
copie.
La domanda è: chi detta oggi l’agenda del Paese? Certo non noi, ridotti
come siamo quasi al silenzio. A me pare che qui sta l’attualità del
racconto che voi mi costringete a fare ai miei nipoti. I quali vivono in
un Paese dove gran parte del ceto politico (non tutto per fortuna) ha
ceduto il comando non solo all’oligarchia finanziaria ma al giornalismo
più straccione che lusinga il suo narcisismo invitandolo a schiamazzare
nei talk show televisivi e accettando perfino che la trasmissione venga
aperta da un comico che li sbeffeggia (tra le risate di tutti). A questo
ci siamo ridotti? Certo, la sinistra non possiede più l’alto linguaggio
etico-politico, di condanna civile del cardinal Bagnasco. La sinistra
– come sappiamo e tutti diciamo - deve rinnovarsi in tante cose. Secondo me,
tra queste, c’è una nuova riflessione che deve fare sull’importanza dei
giornali.
Perché i dirigenti non scrivono gli editoriali? Come pensano
di far camminare le idee se ne hanno?
Idee non le solite battute di una
intervista televisiva. È vero, è in tv che si forma quella cosa
fondamentale che sono i costumi i modelli di pensare. Ma a monte ci sono
pur sempre le idee, le grandi decisioni. Dopotutto
la cultura dominante
è quella della classe dominante, ed è a essa che il sistema dei media
si adegua. Concludo. Alla fin fine che cosa chiedono i miei nipoti se
non ridare senso e significato alle loro esistenze, se non il bisogno di
tornare ad essere padroni delle proprie vite? È ciò che cercano.
Sappiano allora che questo fu il grande messaggio dell’Unità. Non fummo
un grande giornale popolare e di massa perché raccontavamo balle o
pubblicavamo storie di puttanieri. Ma nemmeno lo fummo solo perché
denunciavamo le ingiustizie.
Lo fummo perché ci costituimmo come
strumento di una costruzione democratica, cioè del protagonismo (per una
volta tanto nella storia italiana) delle masse.
Spero si capisca l’orgoglio e la piena dei sentimenti di chi faceva quel
giornale e vedeva l’operaio del cantiere di Taranto (l’ho conosciuto)
che rischiava il licenziamento perché si ostinava a varcare i cancelli
della fabbrica, all’alba con in tasca l’Unità. C’è una grande
discussione sulla “casta” e sul modo di fare politica. Non mi piace. Io
ricordo che quasi ogni sera un uomo come Palmiro Togliatti prima di
andare a casa passava dalla redazione in via IV novembre. Parlava con
noi e si faceva portare una birra prima di mettersi a scrivere un
commento con l’inchiostro verde. Vedi, mi diceva,
sta attento al
linguaggio: quello della politica deve parlare ai cuori e alle menti e
non imitare il linguaggio povero e rissoso dei giornali. Leggi
Stendhal. Purtroppo ho perso i bigliettini che mi mandava ogni giorno
per commentare un film o la cronaca del Giro d’Italia. Arrivavano a sera
anche gli intellettuali che scrivevano la “terza pagina” e ponevano al
povero Ingrao problemi impossibili. Pietro commentava in prima pagina il
passaggio dal neo-realismo alla commedia all’italiana. Si lavorava come
matti e l’ultimo camioncino portava a casa il direttore verso le due.