venerdì 27 maggio 2011

Università pubblica e per tutti: ma qualcuno ci crede ancora?


E’ di questi giorni l’interrogazione parlamentare presentata da alcuni senatori appartenenti a diversi gruppi (Pd, Udc, Api, Fli, IoSud) che propone, quale strumento per risolvere i mali dell’università italiana, di adottare anche nel nostro Paese, come già fatto dal governo conservatore in Inghilterra, il cosiddetto “rapporto Browne”.

Si tratta di un sistema che lascia campo all’aumento esponenziale delle tasse universitarie (fino a 9000 sterline) fornendo agli studenti meno abbienti un prestito che dovrà poi essere restituito al termine degli studi qualora lo studente ora lavoratore riesca a raggiungere una certa soglia di reddito (21000 sterline). Il fine sarebbe quello di spingere gli studenti a scegliere le università migliori e quindi incentivare una concorrenza fra queste ultime.
Se l’interrogazione parte da una considerazione tanto condivisibile quanto evidente, ossia che il sistema universitario italiano è al collasso a causa dei tagli indiscriminati effettuati dal Governo, la soluzione prospettata è, secondo il nostro parere, quanto di peggio si potesse partorire. In sostanza si dice: “siccome il Governo ha deciso di disinvestire nell’istruzione e nella ricerca, studenti pensateci voi a salvare l’università italiana”.
Partiamo da alcuni dati di fatto: l’Italia è uno dei Paesi col minor numero di laureati (19% della popolazione fra i 25-34 anni, mentre la media europea è al 30%, in Francia, Spagna e Regno Unito il 40%); nel 2013 il fondo integrativo per borse di studio sarà decurtato del 95% rispetto al 2009 (e già oggi in Italia usufruisce di borsa di studio l8,4% degli studenti, in Germania il 24%); il nostro mercato del lavoro valorizza poco la laurea (anzi in certi casi lo vede addirittura come un ostacolo, perché il laureato “si aspetta di più”); ciò nonostante all’estero i laureati italiani sono ricercati per il loro livello di preparazione.
Il quadro che ne risulta mostra che il livello della didattica nell’università italiana, in considerazione dello scarso finanziamento che riceve, è comunque di ottima qualità. Il problema è che ciò viene poco o pochissimo valorizzato e difficilmente finisce per dare al sistema Italia quella marcia in più che gli permetterebbe di competere con maggiori possibilità a livello internazionale.
I nostri migliori ricercatori sono spinti ad emigrare all’estero, andando così a contribuire allo sviluppo di quei Paesi che, con lungimiranza, hanno capito che in questo campo possono giocarsela veramente con i Paesi emergenti, e non solo spingendo al ribasso sul costo del lavoro e sugli standard di protezione sociale. Perché invece di guardare al Regno Unito, che ha ridotto di più del 20% i finanziamenti al sistema universitario (solo noi, la Grecia e la Lettonia abbiamo fatto altrettanto), non guardiamo ad esempio a Francia e Germania che hanno invece incrementato notevolmente tali finanziamenti, e che hanno sviluppato un serio welfare a supporto degli studenti?
Noi crediamo che una riforma del diritto allo studio sia sicuramente necessaria ma non certo in senso ulteriormente peggiorativo, indirizzo peraltro già intrapreso con l’introduzione dello strumento del prestito d’onore con la l. 240/10 (riforma Gelmini), ma al contrario riformandolo in senso più democratico e soprattutto rifinanziandolo iniziando dallo ristanziare le risorse ad oggi tagliate.
Le università italiane devono sì riuscire nella sfida di diversificare le proprie fonti di finanziamento, ma lo Stato non deve tirarsene fuori ed anzi puntare su questo campo, istruzione e ricerca, per riuscire ad uscire finalmente dalla crisi senza avere le ossa rotte (in termini di costi sociali e competitività), e al tempo stesso intervenendo per fare sì che il titolo di studio diventi realmente un valore aggiunto nella carriera lavorativa e dunque anche uno strumento, anzi lo strumento per eccellenza, di mobilità sociale.
Siamo quindi allibiti nel constatare questa saldatura fra la visione di questo Governo, esplicata più nelle sue finanziarie che con la riforma Gelmini, e la proposta di alcuni senatori dell’opposizione.
In particolare ci stupisce constatare la cospicua presenza, tra i firmatari, di senatori eletti nelle liste del Partito Democratico.
Se siamo ormai consapevoli della linea adottata dal governo, ci domandiamo ora che visione abbia dell'università pubblica il più grande partito d'opposizione e soprattutto se possiamo iscrivere tale visione nel campo del riformismo europeo.
Il modello di università che ne esce è quello di un’università classista che ostacola gli studenti non dotati dei mezzi economici necessari: nella migliore delle ipotesi costruisce una generazione di giovani ultra indebitati prima ancora di avere un’occupazione (in un mercato occupazione che oggi fa segnare record storici sulla disoccupazione giovanile), nella peggiore contraddice completamente il dettato costituzionale (art. 34), per cui i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, e lo Stato deve rendere effettivo questo diritto con borse di studio e altre provvidenze. Bisogna mettersi bene in testa che rendere selettivo il percorso di studi, responsabilizzando gli studenti, è cosa ben diversa dal rendere selettiva anche la mera possibilità di accedere a questo percorso.
Sperando che da qualche parte in Italia ci sia ancora qualcuno che creda in un’università pubblica e di qualità, per ora non possiamo che pensare che il peggio non è ancora passato. Dopo tutto una volta che si è toccato il fondo si può sempre iniziare a scavare.


Andrea Curcio – Senato Accademico
Matteo Domenighini – Consiglio di Amministrazione
Università degli Studi di Brescia

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